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Molte volte come penso qualsiasi altra persona mi soffermo a riflettere sulla molteplicità delle cose che ci circondano, ma soprattutto su quelle cose che spesso all’uomo sono irraggiungibili e cui non riesce a conoscere (o meglio a porre entro dei limiti di comprensione). Sin dalle appendici della vita l’uomo per sua natura sono convinto (in quanto l’unica cosa che differenzia l’uomo dal resto delle creature viventi sulla terra è appunto la sua elevata e non elementare capacità razionale, oltre che la sua innata capacità di astrarre e ponderare su cose non fisiche , ma anche su cose sia di natura che di sviluppo astratte), cerca di darsi una spiegazione di ciò che lo circonda. E’ quindi nella natura umana cercare di esemplificarsi il cammino attraverso la conoscenza , con l’ausilio della scienza, l’utilizzo di parametri che impongano dei limiti che mai si crederebbe di poter superare e attraverso l’imposizione di norme che oggidì sembrerebbero averci aperto la strada a una comprensione più elevata, ma che ci hanno in realtà, oltre che esiliato parte dell’universo, resi consci della sua molteplicità e della nostra piccola sfera di azione nella sua immensità. Tutto ,mi induce delle volte all’unificazione di un unico concetto basilare o di pochi di questi, insomma ad una comprensione del Tutto attraverso un astratta  “oligarchia” di concetti, mentre altre volte il Tutto mi pone esterrefatto dinanzi all’infinità di se stesso. Ciò genera talvolta in me il rancore, l’impotenza, ma anche la voglia di concepire, coniugare ed estrapolare la conoscenza intrinseca ed estrinseca riposta al mio interno, ma pure al mio esterno. Fatto è che tutto ciò che mi è imposto, sia nella quotidianità che nella comune vita, come all’interno della mia apprensione scolastica ha limiti e si muove dentro questi limiti. Limiti che si spostano quotidianamente con le innovative scoperte che, invece di esemplificarci la vita ci portano, pare a complicarcela introducendo nuovi grattacapi e nuovi problemi. Le domande che mi pongo quotidianamente hanno uno stanziamento pressoché infinito e alquanto difficile da porre entro limiti di coerenza e di razionalità che mi circonda. Si dice che la bontà di Dio è infinita, che la sua presenza è sin dai tempi dei tempi, che la matematica non ha limiti e neppure le sue basilari formule possono includere tutte le altre.

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Tutto ciò ha dello stupefacente !!
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Come già detto, mi capita spesso di soffermarmi a pensare e purtroppo sempre di bloccarmi, di non riuscire a proseguire. All’inizio della mia vita , pensavo e vedevo le cose tutte bianche o nere, ma col tempo, con la crescita e con l’accumularsi delle esperienze, attraverso il mio personale cammino della vita ho imparato a vedere le cose non solo chiare o scure. Ho compreso che ci sono un’infinità per non dire un un’indefinibilità di sfumature di grigio tra il bianco e il nero , tra il comportamento di una persona ed il comportamento che in una stessa determinata situazione terrei io o qualcun altro nella medesima situazione. Questa impossibilità di definire, di comprendere in pieno e di capire mi affascina molto ed allo stresso tempo mi spaventa. Forse è proprio per tale motivo che ho scelto questo approfondimento che molto nella sua documentazione mi attrae e mi stupisce, ma che anche al tempo stesso mi rende difficile l’esprimerne i concetti e le idee che sviluppo e che acquisisco. Tale difficoltà proviene dalla  complessità di una comunicazione pura senza il fraintendimento di concetti e di idee.

Kant scrisse nella “Critica della ragione pura” : << Nonostante la grande ricchezza delle nostre lingue il pensatore si trova spesso in imbarazzo riguardo ad una espressione che si adatti esattamente al suo concetto, mancando della quale egli non può farsi intendere correttamente dagli altri, e neppure da se stesso. Coniare nuove parole è una pretesa di legiferare in materia di linguaggio, la quale di rado ha successo; e prima di ricorrere a questo mezzo disperato, è consigliabile cercare in una lingua morta e dotta, per vedere se non vi si trovi questo concetto assieme alla sua espressione adeguata  >>.

Stabilito quindi che molto ampio e difficile è l’argomento non mi resta altro da fare che chiarire il mio punto di vista in tale discorso e definire i limiti entro cui lavorerò per stabilire se il mio fine al termine di tale laboriosa ricerca si sarà rilevato valido ed inerente. Tutto questo nacque da una discussione tra giovani amici. Una sera come un’altra si è intrapreso dopo una birra di troppo in compagnia il discorso se fosse possibile la presenza del nulla intorno al nostro universo e come esso sia possibile. Ne è risultato che molti di noi credevano nella possibilità della infinita esistenza di mondi diversi fra loro e nella reale possibilità di una vita esistente anche, oltre al nostro pianeta, in un altro ed in molti altri pianeti di infiniti altri mondi. Ma della possibilità del nulla in sé stesso attorno a noi non se né quasi neppure parlato una volta avviato il molto animato discorso! Tornato a casa, dopo tali discorsi la sera non riuscii ad addormentarmi facilmente, moltissime cose “mi frullavano per la testa”. Non riuscivo a capacitarmi ed a fornire spiegazioni a ciò che pensavo e più ampliavo l’argomento più esso sembrava diventare insostenibile ed incredibilmente ricco di particolari e tutto questo mi attraeva molto.

 

 

L’argomento tra amici era stato molto discusso, ma non del tutto; infatti come spesso accade si era giunti a discorsi ed ad esplicazioni anche se non del tutto banali alquanto superficiali e ricche tuttora di innumerevoli quesiti. Ad esempio non si nessuno aveva minimamente pensato che l’infinito non può essere in un unica direzione, ma lo deve essere per sua natura in tutte, quindi di conseguenza la moltitudine infinita di mondi, lo doveva essere sia nel più grande, sia nel più piccolo che pure nel nostro spazio circostante.

A questo punto urge un approfondimento: Lo spazio è finito o infinito?

 

BB: Lo spazio è finito o infinito a seconda della sua geometria.

Quando questa è sferica , è finito e senza limiti. Uscire dall’universo significa seguire una linea retta per varcare i suoi confini. Ma secondo la teoria della relatività, la linea retta può essere curva e anche chiusa, e formare quindi un cerchio da cui non si può uscire. Anche se contenuto in una testa di spillo[1] lo spazio è finito ma senza limiti valicabili., Oggigiorno esso non farebbe altro che svolgersi.

 

CC: I fautori dello stato stazionari, rispondono è più che ovvio, in modo affermativo. Dal momento che la geometria dello spazio che contiene l’universo è parabolica, esso è necessariamente infinito è illimitato. Ciò nonostante, continua a crescere per via dell’espansione permanente: è aperto, si dice, per l’eternità il paradosso è appunto questo, l’infinitamente grande continua ad espandersi indefinitamente.

 

Riprenderemo successivamente per analizzare meglio i termini Spazio, Tempo e Nulla che penso siano poi i termini per cui l’uomo tenta di conoscere la verità e che essendo basati, in unità di misura stabilite a “tavolino” sono per così dire le più suscettibili di errori e di relatività. Infatti e qui spiego il perché della mia ostinata voglia di conoscenza parificata al grande LEOPARDI ma del tutto differente per non dire contraria nelle basi di fondo a lui. Io credo, come Freeman Dyson che l’intelligenza e la razionalità dell’uomo provengono da un processo di evoluzione della vita, delle cellule[2]. Comunque in definitiva, per non allontanarmi troppo dalla traccia principale, giungo come si sul dire “al sodo”. Ciò che mi interessa è il processo << prebiotico>>, ovvero il processo in cui il pianeta Terra si è preparato a ricevere la vita. Esso consta di tre stadi principali che possiamo chiamare con i nomi :

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  1. 'geofisico’ che si occupa della storia primitiva della Terra e in particolare della natura dell’atmosfera terrestre primordiale,

  2. ‘chimico’ che si occupa dello studio della sintesi delle basi della vita per l’azione di processi naturali che operano in modelli verosimili dell’atmosfera e dell’oceano primitivi; per basi intendo principalmente aminoacidi e nucleotidi dai quali sono costituite le proteine e gli acidi nucleici

  3. ‘biologico’ che si occupa in fine della comparsa di organizzazioni biologiche, della costituzione di una popolazione  coordinata di proteine e di acidi nucleici e di altre grandi molecole partendo da un assortimento casuale di strutture chimiche.

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Quello che mi interessa ora è di esporre lo stadio chimico e biologico per far realizzare a tutti la connessione che dalla materia porta al risultato dopo innumerevoli passaggi di ciò che si è sviluppato successivamente al BIG BANG ovvero allo sviluppo della vita, della razione.

Quindi questo è il mio fine: far corrispondere alla sete di conoscenza dell’uomo una presa di coscienza dell’universo stesso, del BIG BANG (in fin dei conti noi, la nostra mente, la capacità di astrarre e di porci domande non è altro che un prodotto degli elementi della natura, della materia che a sua volta altro non è che un prodotto del BIG BANG).

 

Lo stadio chimico dell’evoluzione prebiotica fu studiato da Stanlay Miller negli esperimenti svolti nel 1953. Miller si è servito di un’atmosfera riducente, composta di metano, ammoniaca, idrogeno molecolare e acqua, vi ha fatto scoccare scariche elettriche ed ha raccolto i prodotti della relazione. Ha composto un miscuglio di composti organici contenenti un discreto numero di aminoacidi. Altri scienziati riprodussero i suoi esperimenti con altre variazioni, impegnando luce ultravioletta (che in quel periodo primordiale era liberamente fornita dal sole) o radiazioni ionizzanti al posto delle scariche elettriche. I risultati furono concordanti, la primitiva Terra possedeva un gran numero di aminoacidi. Essi potevano cadere con la pioggia sulla Terra , accumulandosi nei laghi, nei mari con altre sostanze organiche . Come sia avvenuta la sintesi prebiotica dei nucleotidi, gli elementi da cui si producono gli acidi nucleici, è un problema più difficile. Con degli esperimenti simili a quello di Miller non si è giunti al nulla. Un nucleotide ha una struttura più instabile e delicata degli aminoacidi. Infatti non è facile sintetizzare la sintesi nucleica di questi. Non si può dire che essa sia impossibile, ma si sà solamente che, se è avvenuta, nessun chimico fin ora è stato in grado di riprodurla. Quindi si ritiene che solo gli aminoacidi sarebbero stati sintetizzati in epoca prebiotica, mentre i nucleotidi, sarebbero stati sintetizzati successivamente. Questa conclusione va ha favore dell’ipotesi, presso cui protendo, della ovvia origine, mentre altra ipotesi sarebbe quella di vedere aminoacidi e nucleotidi siano stati sintetizzati attraverso processi naturali prime dell’inizio della vita. Nessuna delle due prevale e nessuna delle due è tuttora stata smentita. Quel che è certo è che non abbiamo nessuna testimonianza diretta sulla stessa origine della vita.

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Ci sono tre gruppi di teorie principali sull’origine della vita:

 

  1. Teoria di Oparin del 1924 che prevede che l’ordine degli avvenimenti fosse: cellule, proteine, geni. Infatti osservo che quando un liquido oleoso dotato di certe caratteristiche si mescola con l’acqua accade spesso che formi un miscuglio stabile, in cui il liquido oleosi dispone in piccole gocce sospese nell’acqua. Queste sono facilmente formabili. Egli suggerì che la vita avrebbe potuto generarsi attraverso l’accumularsi di molecole in queste goccioline dalla superficie rassomigliante a quella delle cellule viventi, in forma sempre più complicata. Dapprima la struttura della cellula, poi le proteine che organizzarono la popolazione di molecole nella gocciolina in cicli metabolici che si mantenevano da soli. Alla fine i geni che non molto sapeva di essi. Tale teoria fu apprezzata perché sembrava essere l’unica in grado di competere contro il creazionismo.

  2. Teoria di Eigen negli ultimi venti anni rovesciò completamente quella del predecessore : geni, proteine, cellula. Questa teoria molto di moda ultimamente perché egli identifico i geni come acidi nucleici molto più facili da studiare delle proteine ed inoltre perché gli esperimenti di Eiger usarono l’RNA come materiale di lavoro rendendo verosimile l’idea che la duplicazione del DNA sia stato il fondamentale processo intorno al quale si sviluppo il resto della biologia. La teoria di Eigen vede da prima l’RNA che duplica se stesso, successivamente le proteine che sembrano costituire con l’RNA una forma primitiva del moderno apparato genetico, ed in fine le cellule, che compaiono per ultime a dare coesione all’apparato fisico.

  3. Teoria di Cairns-Smith è basata sull’idea che i microscopici cristalli dei minerali contenuti nell’argilla siano serviti da materiale genetico organico originario prima che si <<inventassero>> gli acidi nucleici. Questo perché, senza troppo dilungarsi, gli atomi di metallo possono essere considerati come portatori di informazione quali  i nucleotidi in una molecola di RNA. Supponiamo che un microcristallo sia contenuto in una goccia d’acqua ove siano disciolte diverse molecole organiche. Le particolari superfici piane venitesi a creare con l’annessione di un atomo di metallo fanno subire particolari configurazioni irregolari, in grado di far assorbire particolari molecole alla superficie e catalizzare su di esse particolari reazioni chimiche le cui modalità dipendono dall’esatta posizione degli atomi. Così facendo i cristalli  potrebbero svolgere la stessa funzione dell’RNA nel guidare il metabolismo di aminoacidi e proteine. Naturalmente quando il cristallo cresce attraverso la deposizione di atomi disciolti nell’acqua che lo circonda lo strato appena  cresciuto tenderà a mantenere la stessa distribuzione di atomi sottostante. Non vi sono prove sperimentali che dimostrino che l’argilla faccia sia da catalizzatore che da duplicatore con sufficiente specificità. In ogni modo si vede per prima l’argilla, poi le proteine , le cellule ed in ultimo i geni.

 

Dopo questa sosta, spero che sia chiaro che il mio scopo non era quello di uscire dal seminario o quello di svelare lo sviluppo della vita; ma semplicemente di portare alla base di tutto il mio discorso un punto fermo ed essenziale in cui credo e con cui, attraverso questa dilagazione, mi baso. Come sopra dimostrato l’origine della vita avvenne attraverso la materia, e lo sviluppo di essa; quindi non è tanto sciocco pensare che anche i nostri pensieri e i quesiti che ci spingono alla conoscenza altro non sono che materia stessa che sviluppandosi prende coscienza di sé stessa.

 

Ricapitolando per ora i punti fermi su cui mi baso per poi proseguire con più chiarezza:

  •   senso profondo, brama, di conoscere in ogni uomo

  •   difficoltà della lingua per esprimere l’infinità di idee, sensazioni, pensieri ecc.

  •   necessità dei limiti, ma superiorità della realtà a questi limiti

  •   instabilità e relatività dei nostri sistemi di riferimento

  •   idea che il tempo come noi lo valutiamo abbia avuto inizio solo dopo il BIG BANG

  •   convinzione che la vita provenga dalla materia

  •   convinzione che lo svilupparsi della vita come dell’intelligenza altro non sia che una presa di coscienza della materia rispetto a se stessa

 

 

TEMPO

Si può andare a ritroso nel tempo ?

 

Per rispondere a questa domanda occorre chiamare in causa la velocità della luce. Poiché essa è finita (300. 000 Km/s) c’è sempre un divario di tempo tra l’emissione di una radiazione luminosa e la sua ricezione. Nello spazio vicino ciò non ha nessuna importanza: vediamo la Luna com’era un secondo fa’, il Sole com’era otto minuti fa, o ancora la galassia più vicina a noi (Grande nube di Magellano), con 170.000 anni di sfasamento. Nella teoria del Big Bang questa particolarità è sfruttata come macchina per andare a ritroso nel tempo. Infatti, più si osserva lontano e più ci si avvicina all’origine dell’Universo. La distanza è dunque un indicatore dell’evoluzione del mondo. Anche per la teoria della creazione la velocità della luce è una costante della fisica. Osservare lontano significa quindi anche vedere il passato. Ma, poiché l’universo è eterno, per questa teoria, il passato assomiglia al presente ed non è un indicatore di evoluzione. Ciononostante, più si allarga il campo di visione più si conoscono fenomeni diversi che ritornano nella vita dell’universo e sono dunque significativi d’una certa evoluzione. Risalendo ai tempi più remoti, il passato dell’universo ci è apparso discontinuo e percorso a senso unico, con trasformazioni che talvolta sono state lente e continue, talvolta rapide come colpi di scena. Abbiamo scoperto che gli avvenimenti non solo non si svolgono mai in modo ciclico e ricorrente, ma hanno una irreversibilità che genera una asimmetria nel tempo. Questa caratteristica si può al meglio comprenderla confrontando il tempo con lo spazio. Nello spazio prossimo decidere di muoverci secondo un certo percorso o secondo quello esattamente contrario. Nel tempo questo non è possibile; non possiamo muoverci indifferentemente verso il futuro o verso il passato, dobbiamo sempre spostarci verso il futuro. Con un po’ di riflessione possiamo provare che pure la vita quotidiana, per quanto monotona e ricorrente ci possa sembrare, è fatta di momenti unici ed irrepetibili, e come quella dell’universo scorre a senso unico in un modo che è determinato da tutto ciò che è accaduto prima. Stiamo per ascoltare un concerto; l’evento è stato preparato da qualche centinaio di persone che hanno dedicato gran parte della loro vita allo studio della musica o del canto. Sono venuti apposta qui, in questo ambiente, con queste correzioni acustiche, studiate e predisposte da esperti tecnici e da una regia. I cantanti dopo essersi formata la voce dopo lunghi anni di preparazione, di prove, di accorgimenti e miglioramenti stanno per farci ascoltare il testo della canzone con la loro voce, con la loro particolare interpretazione. Per far questo tutti gli esecutori sono venuti da diverse città . Domani saranno di nuovo altrove; ma ora sono qui con noi e per noi. Il direttore si avvicina e da il via al momento sublime della creazione dell’opera d’arte che sarà unica ed irripetibile e che, si formerà e svanirà nei momenti stessi in cui si svolge. A questo attimo creativo contribuiscono una schiera di persone visibili ed invisibili:

  •   l’autore, che non e più vivo da tempo,

  •   gli esecutori,

  •   i costruttori degli strumenti,

  •   i costruttori dell’edificio,

  •   noi stessi che colleghiamo le note appena passate con quelle che stanno arrivando,

  •   …

Udremo ancora la stessa opera ma non sarà più identica, nemmeno se la riascolteremo la sera dopo, con gli stessi esecutori e nello stesso ambiente, perché, anche se tutto il resto fosse rimasto immutato, saremmo noi a cambiare, se non altro per l’influenza esercitata dall’audizione precedente. Ciò avviene per tutto. Nessuno di noi può vivere due volte uno stesso fatto in uno stesso modo, così come la Terra, anche se l’orbita restasse sempre la stessa, non passerebbe mai due volte per lo stesso punto dello spazio. Tornando alla visione cosmica ci si accorge che ciascuno degli eventi unici della nostra esistenza si è preparato nel tempo dall’origine dell’universo. Quello splendido concerto che abbiamo ascoltato non sarebbe mai esistito se l’universo avesse conservato la composizione originale d’idrogeno ed elio e non ci fosse stata, tra il momento di origine e noi, tutta quella successione di eventi che ormai conosciamo quasi al completo. E ancora una cosa abbiamo scoperto. Che, come tutto ciò che è accaduto sino ora ha preparato il mondo e gli avvenimenti che viviamo, così noi stessi con la nostra vita, contribuiamo a preparare il futuro dell’universo, anche se solo entro quei piccoli gusci di spazio e di tempo nei quali ci è dato di agire. Siamo granelli di polvere transitori, conseguenza del passato, ma anche insieme ad altri granelli di polvere artefici del futuro.

 

Tempo cosmico

 

Il temo è asimmetrico, il temo è aciclico, il tempo e relativo a ciascun osservatore. Di quest’ultima caratteristica non c’eravamo ancora accorti ma la teoria della relatività lo dimostra. Tuttavia le nostre escursioni nel tempo, si erano svolte senza problemi sino a ché eravamo rimasti nei dintorni della Terra e non ci eravamo spostati in epoche tanto lontane come quella, più remota, dell’origine dell’universo. In questo ultimo viaggio, però, ci siamo spinti fino ad epoche molto vicine al principio del mondo e lo abbiamo fatto continuando ad usare tranquillamente il nostro tempo. Questo non è lecito. Saremmo disposti ad accettare che un alieno ci imponga il suo tempo? Certamente no ! Questa non è una questione di orgoglio ma una vera e propria difficoltà pratica: -non possiamo fare la storia dell’universo come un tutto unico usando diversi tempi in diversi punti-. Dobbiamo trovare un tempo in cui uno stesso istante valga per tutti i punti. Per giungere a questo occorre partire dal principio cosmologico che dice: << “la struttura e le proprietà dell’universo su larga scala sono ovunque le stesse” >>. Si supponga ora  di dislocare in tanti punti dello spazio altrettanti osservatori, per ognuno dei quali il moto rispetto agli altri osservatori è tale che venga rispettato il principio cosmologico. Ciò può accadere solo se le distanze tra gli osservatori restano sempre le stesse, oppure se aumentano o diminuiscono uniformemente. Un osservatore in quiete rispetto alla galassia in cui si trova è un osservatore ideale del tipo sopra definito. A questo punto si potrebbe inserire un tempo al quale riferire il mutare dell’intero universo. E’ quello degli osservatori ideali, fermi ciascuno nella sua galassia; ossia è il tempo indicato in ogni punto da un orologio in quiete rispetto alla materia in quel punto. Questo tempo viene chiamato tempo cosmico. Con esso possiamo ristabilire il concetto di contemporaneità in maniera operativa e quindi seguire globalmente la trasformazione dell’universo. Un’applicazione ce lo farà comprendere al meglio : sappiamo che l’universo è in espansione, che la sua densità media dovrà quindi diminuire progressivamente e, per il principio cosmologico, nello stesso istante dovrà essere la stessa in tutto l’universo. Diremo allora che due o più eventi sono contemporanei quando due o più osservatori, ciascuno in quiete rispetto alla sua galassia, misurano negli istanti corrispondenti la densità media, che è una globale proprietà dell’universo, trovando lo stesso valore. A questo punto non sarà più opportuno neppure riferire il tempo alle unità di misura astronomiche che, anche se furono le prime ad essere usate, hanno recentemente mostrato di non essere del tutto affidabili. Naturalmente potremmo continuare ad esprimere il tempo in anni, minuti e secondi, ma questi saranno definiti, come viene fatto d’altra parte da diversi anni nella vita quotidiana , attraverso meccanismi naturali (il diapason, ecc.) che, sono governati da leggi che si ha ragione di ritenerle valide in tutti i tempi ed in tutti i punti dell’universo. Il tempo cosmico non ha carattere assoluto, ma ha un carattere universale se vale il principio cosmologico. Se ciò non accadesse, il tempo cosmico non avrebbe ragione d’essere.

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Spazio

 

Almeno sulla carta, c’è un numero enorme di modelli di universo costituiti dai teorici. Se tutto ciò che riguarda il presente ed il passato corrisponderà al universo reale, siamo autorizzati a pensare che anche il suo futuro si svolgerà com’è previsto in quello teorico. Ciò che abbiamo scoperto sul passato ci ha svelato, come l’universo ha funzionato finora e di cosa è composto. Non ci siamo mai preoccupati di sapere com’è fatto, per esempio da un punto di vista geometrico. Invece è importante perché si possono avere differenti sviluppi, cioè futuri diversi , proprio a seconda della geometria. Il numero di universi costituibili teoricamente è illimitato. In pratica ne sono stati prodotti molti e se ne producono tuttora in continuazione. Non potendo esaminarli tutti, basterà esaminare le soluzioni che spiegano nel miglior modo i principali fatti osservati, cioè l’espansione dell’universo, il modo di espandersi, la distribuzione delle galassie , ecc.

 

La soluzione di Fridman

 

Parte dalla teoria della relatività generale che fu applicata all’intero universo da Einstein nel 1916. Egli, risolvendo le sue equazioni trovò che l’universo, finito o infinito, doveva espandersi o contrarsi. L’universo non poteva essere statico. Era un risultato sconvolgente per l’epoca ed anche Einstein lo rifiutò. Infatti pensò che esistesse una forza cosmica in grano di neutralizzare la gravità ed introdusse nelle sue equazioni una costante in grado di rimettere le cose a posto, rendendo l’universo statico. Nel 1922 Fridman risolse nuovamente le equazioni di Einstein. Fridman ipotizzo che la materia fosse distribuita in modo omogeneo in tutto lo spazio, anticipando il principio cosmologico, ed ignorando la ‘costante cosmologica’ introdotta da Einstein. Trovò così che l’universo poteva essere aperto o chiuso e che nel primo caso si sarebbe dovuto espandere per sempre, mentre nel secondo, dopo essersi dilatato fino al massimo, avrebbe dovuto contrarsi. Nel 1929  E.P. Hubble, ricavando le distanze di diverse galassie e correlandole con le velocità radiali ottenute dai loro spettri, scoprì che apparivano allontanarsi dalla nostra galassia con velocità maggiore quanto era maggiore la distanza dalla nostra galassia. Ciò dimostrava che l’universo è in espansione. Pur morendo a 37 anni nel 1925 di tifo e senza essersi potuto godere i meritati meriti, Fridman ci ha lasciato una grossa eredità. Infatti secondo lui i modelli di universo possibili sono tre e di certo uno di questi e quello reale.

 

I tre universi possibili

 

La legge di Hubble, che mostra come cresce la velocità di allontanamento delle galassie da noi con l’aumento della distanza, si esprime con la formula V=Hr, dove V=velocità, r=distanza e H=costante di Hubble. Questa costante ci dice come si dilata l’universo attraverso un numero che esprime la velocità di dilatazione in chilometri al secondo per ogni megaparsec di distanza (1 megaparsec=1 milione di parsec=3,262 milioni di anni luce). Il suo valore si calcola attraverso galassie per le quali sono state ricavate le velocità di allontanamento e le distanze. Esse funzionano quindi come indicatori di una velocità dello spazio. Per aver un buon valore della costante di Hubble è necessario, dunque, ricavarlo dal maggior numero possibile di galassie situate a varie distanze tra noi. Anche questo non basta perché non conosciamo bene l’effetto dovuto ai moti delle galassie in seno all’Universo. Così diversi autori sono giunti a risultati assai differenti di tale costante. Ciò e grave perché da essa si ricava l’età dell’universo. Il metodo è semplice. Supponiamo che l’universo si sia dilatato sin dall’origine e si dilaterà sempre di più ma alla stessa velocità con cui lo vediamo dilatarsi oggi. Indichiamo con R la distanza tra le due galassie in esame. E’ ovvio che a causa dell’espansione la distanza aumenterà, mentre in passato sarà stata sempre minore fino al momento originario in cui sarà stata di zero. Se rappresentiamo in un grafico l’aumento di R al crescere del tempo, ammettendo l’idea della dilatazione sempre alla stessa velocità. il fenomeno sarà rappresentato da una retta che diviene uguale a zero quando incontra l’asse dei tempi.

[1] Come in origine, prima del BIG BANG per cui si ritiene che l’universo così come lo contempliamo, anche se continua a modificarsi, ha avuto origine in un tempo particolare e da quella primordiale esplosione ha quindi originato lo spazio ( e avviato la sua dilatazione ) e il tempo (provocandone lo svolgimento)(sul tempo ci torneremo più avanti).

Infatti tutto si allontana da tutto per cui e palesemente credibile che in principio esso fosse concentrato.

[2] non c’è che di restare senza parole se si pensa alle capacità mentali raggiunta dall’uomo, dalle sue intuizioni alle sue invenzioni e in riferimento agli stati d’animo di questi, dei sui pensieri,...Eccezionale veramente!

FIGURA 1

Come si dilata l’universo al passare del tempo. Nel diagramma sono riportate le tre soluzioni trovate da Fridman: dell’universo chiuso (1), aperto (2) e piatto (3).Come appare dalla figura, nel primo caso la distanza R tra due galassie, dopo aver raggiunto un massimo, tornerà a diminuire e l’universo finirà in un punto come era cominciato; nel secondo e nel terzo, invece, aumenterà sempre e l’espansione è destinata a non avere mai termine.

Tutto questo andrebbe bene se l’universo una volta cominciato ad espandersi, andrebbe avanti a farlo a velocità costante e ciò accadrebbe se non ci fosse nessuna forza che rallentasse l’espansione. Ma almeno una c’è: la forza di gravità. Dunque l’universo dovette espandersi in modo più rapido che anteriormente. Ciò significa che esso è più giovane di quello che figura con velocità di espansione costante.

 

Ma di quanto è meno vecchio?

 

In effetti si possono verificare tre casi che rappresentano altrettante soluzioni elaborate da Friedman. Certamente vi fu una forza che dette l’enorme spinta per quell’espansione che continua oggigiorno. Non si sa né da dove, ne quale fu la sua entità.

 

Per quanto concerne questo secondo punto e facile comprendere che abbiano potuto esserci solo tre casi:

  1. L’energia dell’universo non è sufficiente a vincere la forza decelerante della gravità 

  2. La spinta fu esattamente quella necessaria per far espandere l’universo all’infinito in un tempo infinito 

  3. La spinta fu superiore a questo secondo valore e l’universo continuerà, a più forte ragione, la sua espansione verso l’infinito per un tempo illimitato.

FIGURA 2

 

Analoghi a due dimensioni dei tre universi di Friedman.

 

In a): l’universo piano nel quale vale la geometria euclidea: due rette parallele mantengono la stessa distanza tra loro in tutto l’universo.

 

In b): l’universo chiuso che, nel caso bidimensionale, corrisponde alla superficie di una sfera;  qui due rette parallele convergono.

 

In c): l’universo aperto in  cui due rette parallele divergono. In tutti e tre i casi che sono pure finzioni per mostrare quel che può avvenire nel nostro universo mediante l’osservazione di ciò che avviene in uno spazio ridotto di una dimensione, le galassie (come qualsiasi altro corpo appartenente a  ciascuno dei tre universi) vanno immaginate piatte, prive  di spessore. Naturalmente nei casi a), c) i bordi sono tracciati  solo perché la pagina non è infinita, come invece lo sono i  due rispettivi universi.

In effetti l’universo tende a rallentare l’espansione. Ma può rallentare più o meno rapidamente e il rallentamento può avere esiti diversi.

La variabile q0 è un parametro di decelerazione.

 

Se il parametro :

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  •   q0>½ l’universo rallenterà sempre di più ed un giorno finirà la sua espansione.

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  •   q0<½ o ( q0=½) l’universo il rallentamento non riuscirà mai a fermare l’espansione.

 

Anche i tre casi del diverso valore di q0 esprimono i tre modelli di universo trovati da Friedman. I tre casi che abbiamo visto corrispondono ad una proprietà intrinseca dell’universo: la geometria. Come risulta dalla relatività generale lo spazio si incurva in prossimità di massa. La curvatura è tanto maggiore quanto è maggiore la quantità di massa del corpo rispetto al volume, cioè quanto maggiore è la densità. La massa dell’universo è proporzionale alla sua densità che diminuisce continuamente a causa dell’espansione.

  1. Se la densità media della materia (distribuita omogeneamente in tutto l’universo per il principio cosmologico) è più grande di un certo valore critico, lo spazio s’incurva a un punto tale da chiudersi su se stesso. Le traiettorie percorse da tutti i corpi, dalle particelle alle galassie, e persino il cammino dei di luce, s’incurva e tutto resta imprigionato in un universo che appunto per questo viene detto chiuso

  2. Se la densità è minore del valore critico  l’universo è incurvo e allora si dice aperto. 

  3. Al confine tra questi due gruppi c’è un valore della densità per il quale lo spazio tempo ha una configurazione al limite tra le due.

FIGURA 3

A questo punto è opportuno fermarci a considerare alcuni aspetti poco evidenti  ma molto importanti; come per esempio l’età dell’universo a seconda dei vari casi. Se l’universo non avesse rallentato la sua esplosione avrebbe un’età di 19,5 miliardi di anni. Però, ci deve essere un rallentamento e l’età vera dell’universo è di certo inferiore. Nel caso dell’universo piatto ammonterebbe a 13 miliardi di anni; per quello aperto sarebbe compresa tra 13 miliardi e 19,5 miliardi di anni, mentre per quello chiuso sarebbe inferiore a 13 miliardi di anni. Un altro punto da definire è quello del raggio dell’universo. Quando si parla di Big-Bang si tende istintivamente a pensare che l’universo cominciò da un punto. In realtà ciò è vero alla lettera solo per l’universo chiuso che, all’inizio dei tempi, era ridotto schematicamente ad un punto, in cui il fattore di scala R (indicante la distanza tra due galassie) era zero e la densità infinita. È una situazione per noi inconcepibile e d’altronde la natura, con le sue leggi fisiche, ci ha sbarrato l’accesso con il muro di quei 10^43s, che, se si esclude la conoscenza del momento più importante dell’universo, c’impedisce anche d’impazzire tentando di ragionare su qualcosa su cui non abbiamo a disposizione mezzi intellettivi adatti. (Una situazione di quel genere viene chiamata singolarità). Nel modello aperto l’universo è infinito e lo è sempre. Il Big-Bang viene allora ad assumere un altro aspetto : Un’esplosione che avvenne in ogni punto in un universo infinito. D’altra parte se l’universo è chiuso, si ha giustamente la sensazione di un continuo allargarsi nello spazio a partire da un punto.

 

Il futuro dell’universo
  • Chiuso.

Se l’universo è chiuso rallenterà sempre maggiormente l’espansione finché cesserà di espandersi. Per un istante si arresterà. Poi ricomincerà a muoversi, ma in senso contrario, aumentando sempre più la velocità di contrazione , collassando verso il punto dal quale, aveva avuto origine tutto ciò che era stato costituito durante i miliardi di anni di vita. Non si conosce il momento dell’arresto ma si sa che dipende da un particolare valore della sua densità in un certo istante (chiamato densità critica). Dopo questo tutto sarebbe finito. Finito come qualsiasi genere di vita, e tutto si ridurrebbe al singolo punto da cui tutto era stato generato, quindi un universo unico, con un’origine ed una fine. Oppure un universo-oscillante che forse e esploso e che collasserà  un numero infinito di volte.

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  • Aperto.

Se è aperto, le galassie continueranno ad allontanarsi una dall’altra conservando la propria individualità. La dilatazione dell’universo non  aumenta anche il volume delle galassie né contribuisce ad alterarne la struttura. A parte la dilatazione globale crescente, il destino dell’universo seguito attraverso l’evoluzione delle galassie. Si calcola che in un tempo che va da 100 a 100.000 miliardi di anni tutte le stelle di tutte le galassie saranno morte, cioè ridotte a nane bianche, stelle di neutroni e buchi neri. Oltre a questi resti vi saranno quelli della materia. Tutti questi corpi, per un po’, continueranno a formare galassie. Col tempo, però, questo materiale si distribuirà in modo nuovo. Non vi saranno più degli ammassi, ma si formerà solo un denso nucleo centrale. Al centro del quale si svilupperà un buco nero, mentre tutti gli altri corpi verranno espulsi nell’universo. Si potranno formare anche dei buchi neri  supergalattici. E tra un numero di anni inconcepibilmente alto tutti i buchi neri spariranno e ci saranno stelle di neutroni, nane nere, pianeti e rocce vaganti in uno spazio in continua espansione, ma sempre più vuoto. Anche i corpi solidi subiranno un effetto fisico che nell’arco di 10^65 anni si scioglieranno. A questo meccanismo non sfuggiranno neppure le stelle di neutroni e le nane nere che diverranno buchi neri e quando anche l’ultima generazione di questi  svanirà altro non resterà che un universo di onde elettromagnetiche e di neutrini sempre più diluiti nello spazio che continuerà ad espandersi per sempre. Naturalmente se riusciremmo ad evolverci, noi o altra forma di vita, talmente tanto da riuscire ad ottenere l’energia ad esempio dai buchi neri, o altro potremmo sopravvive. Per non dire in eterno, ma almeno oltre la fine del sole e delle risorse convenzionali.

 

Possibilità di vita dell’uomo oltre

 

Quando guardiamo al futuro, rinunciamo immediatamente ad essere  scientificamente rispettabili. Quindi e facilmente probabile il mischiarsi di scienza e di fantascienza. Il punto principale sarebbe quello delle modifiche della vita umana al fine di ovviare alla mancanza della natura. Ora che l’ingegneria genetica sta’ diventando rapidamente una proposta pratica, non è del tutto assurdo pensare di ridisegnare le creature terrestri rendendole atte alla vita nello spazio o in altri corpi celesti. Ci sono tre ostacoli all’adattamento di una specie terrestre alla vita nello spazio: imparare a vivere ed ad essere felice in mancanza di forza di gravità, a temperatura 0 ed a pressione 0. Di queste sicuramente l’assenza di forza di gravità e la più semplice da fronteggiare, sebbene non se ne conoscano bene ancora i rischi fisiologici che essa comporterebbe. Avere a che fare con temperatura 0 sarebbe facile in teoria, sebbene complicato e scomodo in pratica. Manto peloso e piume sarebbero nel vuoto un isolamento anche migliore di quanto facciano nell’aria e nell’acqua. Creature adattate allo spazio dovrebbero imparare ad equilibrare l’energia generata dal loro metabolismo e dall’assorbimento della luce del sole e delle stelle con l’energia perduta per irraggiamento alla loro superficie. Probabilmente sarà richiesto un controllo attivo delle superfici radianti, ma la bassa temperatura dell’ambiente rende più agevole la regolazione della temperatura  interna di un organismo. E’ più facile scaldarsi su Plutone anziché rinfrescarsi su Venere. Una volta che una specie abbia imparato a non congelarsi su Plutone, sarebbe in grado di non congelarsi quasi in nessun altro luogo dell’universo. La principale innovazione che l’adattamento a temperatura 0 richiederebbe sarebbe quello che tutte le piante ed tutti gli animali fossero a sangue caldo. Proprio per questa mancanza di piante a sangue caldo che  troviamo sulle coste dell’Artico gli orsi polari anziché delle serre viventi. Infatti se la natura avesse sviluppato delle piante a sangue caldo, in grano di prodursi delle serre viventi intorno a sé, con la stessa facilità con cui l’orso si ricopre di peli, tale pianta potrebbe svilupparsi facilmente su Plutone. Ma la parte più difficile sarebbe quella dell’adattamento a pressione 0. E’ solo con l’adattamento alla pressione zero, imparando a vivere nel vuoto, che la vita può essere liberata dalla costrizione di essere confinata in capsule e moduli spaziali. Lo spostamento della vita dall’aria al vuoto è altrettanto fondamentale e liberatorio dello spostamento effettuato dai nostri antenati dall’acqua all’aria, mezzo miliardo di anni fa. Non possiamo definire le specifiche di una patata a pressione 0 ma possiamo riprendere l’intuizione dell’ingegnere Konstantin Ziolkovsky  nel 1895 in relazione ad un essere in grado di sopravvivere a pressione 0.

 

<< ... la loro pelle è ricoperta da una pelliccia vetrosa, sottile e flessibile, ma assolutamente impermeabile a i gas , ai liquidi ed ad ogni genere di altre particelle , così che tali creature sono protette dalla perdita di sostanze...  I loro corpi anno appendici che sembrano ali e sono esposte al sole, ed  esse servono come laboratori chimici per la produzione di energia e di cibo. Tali pendici sarebbero un ingombro nel campo gravitazionale terrestre, ma in assenza di gravità, nello spazio, non sono di alcun disturbo, anche con una superficie di parecchie migliaia di metri quadrati.>>

<< Fermati! Come si parlano tra di loro e come si scambiano le idee in assenza di aria >>

<< Hanno mezzi di comunicazione molto più perfetti e naturali. Una parte del loro corpo possiede sotto la pelle trasparente un’area simile ad una camera oscura, sulla quale appaiono continuamente immagini in movimento, che seguono il flusso dei loro pensieri e li rappresentano in modo esatto. I disegni sono formati di vari colori che scorrono attraverso una fitta rete di sottili canali sotto la pelle. >>

(da Sogni di terra e di cielo)

 

Lasciando perdere il sogno della comunicazione perfetta di questi esseri , perché tale visione fu influenzata dal sogno di Ziolkovsky, che era tagliato fuori da facili comunicazioni dalla sua sordità, il resto rappresenta un certa ideologia che già nel passato era emersa. Per concludere dovremmo dare per scontato che la vita sia in grado di risolvere i problemi tecnici di adattamento, e presupponendo che la via riesca a sentirsi a proprio agio in qualsiasi angolo dell’universo, proprio come si è adattata ad ogni angolo di questo pianeta. Per un essere umano la sua entropia (significa calore diverso diviso perla temperatura, ovvero si intende una semplice azione come spostarsi quando si è urtati) quando è espressa in bit d’informazione il numero Q (numero che è una misura della complessità della creatura.

 

 

 

Per misurarlo non serve a nulla sapere la struttura interna della creatura, ma può essere misurato osservando il comportamento della creatura e le sue iterazioni con l’ambiente circostante; altro non è che la quantità di entropia prodotta da tale creatura per un essere umano equivale a circa 10^23, il che è una misura approssimata della quantità del calore disperso che noi dobbiamo produrre non facendo assolutamente nulla. In aggiunta a ciò, facendo un’ipotesi di “adattabilità” si può dire che : <<dato un tempo sufficiente è possibile che la vita riesca ad adattarsi a quasi qualsiasi ambiente>>. Indi per cui se l’universo in cui viviamo è un universo aperto, che continuerà ad espandersi e quindi ad raffreddarsi (e visto che le leggi di ecologia cosmica mostrano che è più facile per la vita adattarsi al freddo anziché al caldo visto che la velocità del metabolismo energetico diminuisce proporzionalmente alla temperatura elevata al quadro) la vita con un dato grado di complessità potrà sopravvivere per sempre usando una riserva finita di energia. La vita pulserà più lentamente, ma non si fermerà. Naturalmente essa cesserà in un periodo successivo ai 10^33 anni quando anche tutta la materia sarà cessata, visto che anch’essa è instabile. Se le ipotesi di adattabilità sarà valida, gli schemi di vita e di coscienza dovrebbero passare da un mezzo ad un altro senza alcuna perdita. E anche dopo che i protoni se ne saranno andati, avremo gli elettroni, i positroni (elettroni positivi nell’antimateria), i fotoni ed il plasma immateriale, che potrebbero funzionare altrettanto bene della carne e del sangue come veicolo per i nostri schemi di pensiero. Quindi la vita ed l’intelligenza sono potenzialmente immortali, con risorse di comprensione e di memoria in continua espansione, mente la temperatura dell’universo si abbassa e le riserve di energia stanno scemando. In definitiva si calcola che la quantità di energia necessaria al fine di una sopravvivenza permanente sia  sorprendentemente modesta. Per una società della complessità quale la nostra sulla Terra, partendo dal presente sino all’infinito, la riserva totale di energia richiesta sarebbe equivalente alla energia ora irradiata dal Sole in circa otto ore. La riserva contenuta nel sole oggigiorno, sarebbe abbastanza a sostenere per sempre una società con una complessità dieci miliardi di miliardi più grossa della nostra. Queste affermazioni sono basate su valutazioni numeriche approssimative che potrebbero facilmente essere sbagliate per un fattore di dieci o cento. Tuttavia, offrono un solido appoggio ad una considerazione ottimistica delle potenzialità della vita: implicando di fatto che il mondo della fisica e dell’astronomia sia inesauribile. Per quanto ci spingiamo avanti nel futuro, avremmo sempre nuove informazioni, nuovi mondi, una costante espansione del territorio della vita, della conoscenza e della memoria. Dal calcolo che fece Wright sulla possibilità dei mondi abitati, risulto che solamente nella nostra galassia, escludendo le comete, essi sarebbero ben 170.000.000 con una stima prudente. Per lui, l’esistenza di così tanti mondi abitati non era solo un’ipotesi scientifica, ma soprattutto una causa per riflessioni morali:

<<  ... In questa grande creazione celeste, la fine di un mondo o anche la totale dissoluzione di un sistema di mondi, per il grande Autore altro non è che un semplice incidente che nella vita quotidiana potrebbe capitarci, e con ogni probabilità questi giudizi universali possono essere altrettanto frequenti, nel cielo, quanto la nascita o la morte sulla Terra. C’è qualcosa di così affascinante in quest’idea , che io stesso non posso alzare gli occhi a guardare le stelle senza chiedermi perché tutti non diventino astronomi; e perché uomini dotati di intelligenza debbano trascurare una scienza alla quale sono per natura tanto interessati, e che è tanto capace di allargare la loro comprensione, così vicina com’è ad una convincente dimostrazione della loro immortalità, e capace di rinconciliarli con tutte quelle difficoltà inerenti alla natura umana, senza la più piccola ansia. Tutto questo sembra promettere immensa ricchezza  che brilla nelle magioni stelle. Che cosa non dovremmo fare allora, per preservare il nostro naturale diritto su di essa e per meritare tale eredità, che ahinoi! pensiamo creata solo per gratificare una razza di esseri vanagloriosi, che restano confinati in questo mondo, incatenati come altrettanti atomi ad un granello di sabbia. ...>>

Bisogna anche dire che un milione di cervelli di farfalla che lavorano insieme in un cervello hanno il potere di sognare, di calcolare, di vedere e di udire, di parlare e di ascoltare, di tradurre pensieri e sensazioni in segni sulla carta che altri cervelli sono in grado di interpretare. La mente, attraverso il lungo corso dell’evoluzione biologica, si è insediata come forza motrice all’interno del nostro angolo di universo. Qui, su questo pianeta, la mente si è insinuata nella materia e ne ha assunto il controllo.  Sembra infatti che la tendenza della mente a penetrare la materia ed a controllarla sia una legge di natura. Le singole menti muoiono così come i singoli pianeti vengono distrutti.

 

 

L’infiltrazione della mente nell’universo non potrà mai essere arrestata da alcuna catastrofe o barriera a cui io riesca ad immaginare. Se la nostra specie non decide di aprire la strada, altre lo faranno, o possono averlo già fatto. La mente è paziente. L’universo intorno a noi è come un terreno pronto perché la mente lo cosparga dei suoi semi e li faccia crescere: alla fine, presto o tardi, la mente verrà in possesso della sua eredità.

 

Cosa farà allora la mente?

 

Quando la mente avrà esteso il suo campo d’azione fisico e la sua organizzazione con poteri dieci volte maggiori a quelli a scala umana noi ora non possiamo immaginarci i suoi pensieri e i suoi sogni. Ora la mente può solo rispondere a tale domanda come Dio ha risposto a Giobbe uscendo dalla tempesta: << Chi è colui che ottenebra il mio consiglio con parole prive di conoscenza ? >> Nel contemplare il futuro della mente abbiamo esaurito gli strumenti di scienza ed a ciò altro non resta che la teologia.

 

Autodistruzione

 

L’umanità umanità sta vivendo un momento della sua storia unico e decisivo. Non è la prima volta che questa frase viene pronunciata. Ma un tempo si trattava di svolte nella storia, che generalmente non riguardavano neppure l’intero pianeta, come il crollo dell’Impero Romano. Oggi è diverso: ciò che potrebbe accadere è semplicemente che l’uomo non avrebbe più storia. Tutti conoscono bene il rischio di una guerra atomica. Pure ben noto è il crollo previsto per l’esaurimento delle materie prime più rare, oggi sempre più usate, e delle risorse energetiche che, che con l’attuale uso dei consumi, avverrà certamente a breve scadenza. Purtroppo però, queste due prospettive di morte non sono le uniche. Ci sono infatti grossi rischi per la sopravvivenza dell’umanità anche in conseguenza dal benessere e del progresso. Ciò che colpisce immediatamente è il lentissimo incremento di tutto per migliaia di anni e il rapido aumento che, iniziato verso il principio del secolo scorso, sta raggiungendo un ritmo frenetico. Questa crescita esprime ciò che si chiama progresso e, al tempo stesso, contiene il germe del nostro possibile crollo. Sì è dimostrato e discusso che la nostra civiltà tecnologica è strutturata in gran parte secondo grandi sistemi, cioè organizzazioni in cui un certo scopo unitario viene raggiunto attraverso l’impegno di un gran numero di persone e di mezzi. Una simile struttura funziona solo se funzionano tutte le sue parti... Una delle conseguenze dell’attività e del miglioramento del tenore di vita dell’uomo è la produzione di calore e di gas. Con essa aumenta, però, anche la temperatura dell’atmosfera: attraverso la produzione diretta di calore causando l’effetto serra. In passato avevamo visto che da qualche millennio stiamo uscendo da una fase ‘calda’ di un’epoca glaciale e la temperatura media della Terra è in corso di abbassamento. Ora ci accorgiamo che questo effetto non avrà alcuna conseguenza sul clima del prossimo secolo, perché l’aumento della temperatura dovuto al nostro intervento sarà superiore di 40 volte all’incremento naturale. Insomma, l’atmosfera s’infuocherà in un tempo relativamente breve, forse non superiore a 200 anni. In questo periodo si avranno, al massimo, una decina di generazioni, troppo poche perché la specie umana possa sopravvivere adattandosi alle nuove condizioni attraverso la selezione naturale. Se tale tragedia si verificherà, con la scomparsa dell’uomo cesserà anche l’immissione di nuova anidride carbonica nell’atmosfera e il processo di riscaldamento si arresterà. Il livello dei mari che era salito invadendo città costiere e pianure popolate, a causa della fusione delle calotte polari, tornerà a diminuire il clima si normalizzerà e l’ambiente tornerà ad essere quello di prima nel giro di qualche centinaio di anni. Nella vita della Terra sarà passato solo un attimo, ma dopo tale attimo l’uomo, sarà scomparso e insieme a lui saranno scomparsi anche molti suoi compagni del mondo vivente di oggi.

 

I successori

 

Se l’umanità non saprà governarsi, se l’uomo non riuscirà a compiere il necessario salto di qualità verso il quale è oggi spinto dalle circostanze, se si autodistruggerà o soccomberà in conseguenza del saccheggio planetario e dell’esplosione demografica, non significherà necessariamente che sparirà tutta la vita sulla Terra. Certo, la specie umana, finendo, potrebbe lasciarsi alle spalle un pianeta squallido e desolante, povero di vita ma non completamente privo di vita. Allora, tra le specie superstiti, quasi certamente se ne svilupperà almeno una che particolarmente adatta al nuovo ambiente, emergerà sulle altre.

 

 

 

Breve storia dell’infinito

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Qui sottostante è rappresentato un percorso ideale dell’ideologia dell’infinito che si è sviluppata dal passato ad oggi con tutti i suoi più significativi passaggi ed autori e con alcune delle loro più significative e valide dimostrazioni

 

 

 

Il limite e l’illimitato

 

Nel pensiero greco, alludere all’infinità, voleva dire ricorrere ad un termine di significato certamente non identico a quello racchiuso nel nostro <<infinito>>. Il termine che lo designava era apeirsn, il quale significa letteralmente senza limiti e quindi illimitato. La sfera di significati racchiusi in tale termine non rende certamente inverosimili alcune asserzioni aristoteliche che ne svelano la natura da un lato divina e incorruttibile, ma dall’altro ambigua e refrattaria ad ogni accostamento e tentativo di comprensione. Aristotele non esitò ad attribuire di all’infinito valore di principio. Nella Fisica si legge: <<Ogni cosa è principio o deriva da un principio: ma dell’infinito non c’è principio, ché sarebbe il suo limite. Inoltre è ingenerato ed irriducibile, in quanto è un principio, perché  di necessità ogni cosa generata deve avere una fine e c’è un termine di ogni distruzione.  Perciò, come diciamo, esso non ha principio, ma sembra essere principio di tutte le altre cose e tutte abbracciarle e tutte governarle, come dicono quanti non ammettono altre cause oltre l’infinito...>>. <<Inoltre esso è diverso>>> prosegue Aristotele <<perché è immortale ed indistruttibile, come vuole Anassimandro e la maggior parte dei filosofi>>. Come prove dell’esistenza dell’infinito Aristotele ne elenca alcune: il tempo, la divisione delle grandezze; ma consistono ragioni anche più profonde che consentono di non indurre l’infinito a pura immaginazione: <<solo se è infinita la fonte da cui è tolta ogni cosa generata non vengono mai meno generazione e distruzione>> argomenta Aristotele. <<Inoltre, ogni cosa limitata trova il suo limite sempre rispetto ad un’altra cosa, con la conseguenza che non ci sarà più limite se sempre una cosa deve essere limitata da un’altra. Ma soprattutto il motivo principale e che produce una difficoltà comune a tutti è che, siccome non sono mai pienamente esauditi nel pensiero, e il numero e le grandezze matematiche e tutto quel che c’è oltre i cieli pare che siano infiniti>>. La difficoltà inerente all’infinito, consiste quindi nella sua inesauribilità: ciò che è infinito (Aristotele allude all’insieme dei numeri) non può mai essere presente nella sua totalità nel nostro pensiero. Questa proprietà dell’infinito lo caratterizza al punto da poter costituire una sua prima  definizione: si può cioè affermare che un qualsiasi insieme di oggetti è illimitato nel caso in cui, volendo individuarne ad uno ad uno tutti gli elementi, non si riesce a formarne un tutto, perché ci sarà sempre ed in ogni caso qualche elemento che non avremmo considerato.  Ad esempio, se consideriamo i numeri interi, essi formano un insieme infinito perché potremmo contarne un numero arbitrariamente grande senza mai raggiungere un limite al di là del quale non ci siano altri numeri che non abbiamo ancora contato.  <<L’infinito>> scrive Aristotele <<non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa>>. L’illimitato non può dunque in nessun caso essere riguardato come un tutto completo: ciò che è completo ha una fine e la fine è limitante, mentre l’apeirsn indica appunto, per suo significato intrinseco, l’assenza di ogni limite. Perciò all’apeirsn, resta indissolubilmente associata un’idea negativa, espressione della sua incompletezza  e potenzialità non attuata e non attuabile. È per questo che il termine <<indefinito>> risulta preferibile al termine <<infinito>> per sintetizzare in un’unica parola i significati di apeirsn . L’infinito  può infatti alludere ad un’idea di perfezione estranea al significato dell’apeirsn. Infatti tale termine contiene anche un carattere di non-esistenza implicito e di privazione. Il divenire appare così, in ogni istante una sintesi del limite e dell’illimitato: il limite è ciò che fa esistere concretamente ogni oggetto conferendogli in ogni istante la sua forma ed individualità; ed è anche ciò che determina l’ordine logico degli eventi sottraendoli, per quanto è possibile alla pura casualità.

 

D’altronde non esisterebbe storia né evoluzione se non esistesse, accanto al limite, un principio di natura opposta che ostacoli la tendenza di ogni oggetto a permanere rigidamente fissato nei contorni della sua esistenza impostagli dal principio del limite. Tale principio è per l’appunto l’illimitato. Esso appare come principio negativo e dissolvente, perché ostacolare l’ordine imposto dal limite significa evidentemente condurre la realtà  ad uno stato informe e disorganizzato . Tale stato è tuttavia la necessaria premessa per l’intervento successivo del limite, che in ogni momento corregge la situazione di indefinita potenzialità implicita nell’illimitato e impone agli eventi uno sviluppo razionale. L’esistenza di un insieme illimitato si spiega tramite l’idea del divenire, come al contrario l’idea del divenire si spiega con l’azione del principio dell’apeirsn, che vi appare come dissoluzione di forme sia come elemento casuale. L’esistenza dell’infinito potenziale e non attuale. L’.apeirsn è tuttavia un principio <<divino, immortale e indistruttibile>>sembra sostenere Aristotele alò pari di Anassimandro. Ma come fa un concetto negativo ad essere divino ?  Anassimandro usò l’infinito in due sensi diversi, l’uno, temporale, rapportato all’inesauribilità della successione dei cicli cosmici, l’altro alla permanenza e atemporalità del loro ultimo substrato. In quest’ultimo senso Anassimandro usò l’apeirsn come sinonimo di Dio (che è definibile solo come essere indefinibile e la teologia negativa negando Dio ne dà l’unica descrizione possibile. Per Aristotele l’illimitato non era altro che il substrato materiale degli oggetti visibili, immaginabile per un certo verso come la loro indefinita divisibilità. In effetti un’entità corporea è in sé una forma compiuta, un ‘tutto’ irripetibile eretto dal principio formale, limitante, sul substrato dell’infinita potenzialità, racchiusa negli infinitesimi che lo compongono. Quando entra in gioco la divisione si comincia a parlare di parti; ma quando la divisione è portata agli infinitesimi, la forma originaria appare disgregata, irriconoscibile e ricondotta infine a ciò che potrebbe ritrasformarsi in altro. Nella divisione all’infinito è implicata una tendenza al ritorno della pura potenza.  << L’illimitato è duplice>> scrisse Plotino. << In che cosa consiste la differenza? In questo, che è l’uno l’esemplare, l’altro l’immagine. Inferiore quindi l’illimitato di quaggiù?  Maggiore, anzi: quanto più l’illimitato-immagine fugge dall’essere  - quello verace - tanto più esso è illimitato. Poiché la indefinitezza è maggiore in ciò che ha una minore determinazione. Infatti il meno del bene è un più del male>>.

Nel Tao tè ching è scritto che << è grazie al costante alternarsi del non-essere e dell’essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini>>. Ove la realtà è regolata dal confine il vero infinito non può quindi che manifestarsi nella forma finita. Anassagora di Clazomene  chiamò illimitato il caotico miscuglio originario in cui nulla esisteva perché le forme non erano ancora concepite. L’estrema rarefazione implicita nella riduzione di ogni cosa a parti infinitesime prive di alcun rapporto e principio organizzativo era descritta con la predominanza di etere e dell’aria. Il Cusano avrebbe scritto che nelle particelle elementari presenti nel caos si cela una virtù elementare: le particelle che lo compongono sono suscettibili dell’essere messe in moto dall’intervento ordinatore dell’Intelletto, che ne fa derivare le forme attraverso una separazione del mutuo rapporto di indifferenza. Ma queste particelle elementari di Anassagora non sono come gli atomi di Democrito, indivisibili particelle  materiali che limitano la divisibilità dei corpi . Infatti Anassagora era convinto che nel piccolo stava sempre un più piccolo e nel grande, sempre un più grande. Ma in qualche intersezione della materia, a livello infinitesimale si trova un legame, un qualcosa che in duce una cosa ad essere quella anziché un’altra. Infatti Aristotele cercò di dimostrare come piccole alterazioni portassero a grandi cambiamenti. In Anassagora comparvero i temi principali di ogni successiva analisi dell’infinito: l’incalcolabile numero di combinazioni degli infinitesimi e le imponderabili situazioni che generano le innumerevoli differenze formali. L’inesauribilità dell’infinito e l’impossibilità a cogliere un assoluto minimo o un assoluto massimo. Ma la più esplicita dichiarazione della bipolarità fondamentale che regola il movimento del cosmo, espressa in termini di <<finito>> ed <<indefinito>> viene dai Pitagorici.  Zarata disse a Pitagora come << due siano sin dal principio le cause delle cose che sono, il, padre e la madre: e che il padre è la luce, la madre la tenebra: e che della luce son parti il caldo il secco il leggero il veloce, della tenebra il freddo l’umido il pesante il lento; e che da questi, maschio e femmina è composto tutto il cosmo>>. I due principi furono chiamati dal pitagorico Filolao <<limite>> e <<illimitato>>. Limite ed illimitato furono anche i principi secondo cui si svolse l’intera aritmetica pitagorica. In questa aritmetica sono descritte le ripartizioni fondamentali degli interi secondo le analoghe bipolarità del pari e del dispari, dell’eguaglianza e della diseguaglianza, dell’indivisibile e del divisibile, che regolano anche il successivo dispiegarsi dei numeri naturali e delle proporzioni negli schemi a forma di <<lambda>> e di <<delta>> comuni alla tradizione platonica e pitagorica.

 

Ma dai procedimenti aritmetici è anche deducibile una funzione del limite posta ‘al di fuori’  di ogni movimento polare e prospettante una possibile riunificazione finale del limite e dell’illimitato in un’entità forse definibile ma inesplicabilmente legata al non-essere. E le leggi dell’aritmetica sono anche quelle della geometria. Proclo avrebbe riconosciuto che l’intera geometria e articolabile tra il limite e l’illimitato esemplificabili nella bipolarità del retto e del curvo. Liebniz avrebbe in futuro ancora ricondotto la composizione di ogni figura geometrica al retto ed al circolare. Il limite, scrive Weil, è qualcosa che è costantemente oltrepassato, ma impone di rimando un’oscillazione compensatrice e dell’indefinito svolgersi di tale oscillazione è immagine il movimento circolare. Psicologicamente l’illimitato si manifesta, come rilevò Kant, nel continuo rimando di ogni predicato a un soggetto che gli appartenga: rimando indefinito perché non si giunge mai ad un soggetto ultimo, come non si giunge mai all’ultimo substrato di ogni accidente.  Sembrerebbe che la coscienza di se stessi, cioè l’immediata intuizione di se stessi come oggetto pensante, fornisca infine un sicuro approdo al regresso all’infinito di predicati e soggetti. Ma è pura illusione dice Kant; non si dà vera conoscenza del proprio essere assoluto appunto perché è impossibile darne un predicato. Il pensiero discorsivo è perciò in tal senso intrinsecamente illimitato; esso percorre un infinito potenziale che non ha né termine né soluzione. Il limite, in tale processo, coincide allora con l’applicazione, passo per passo, del principio d’identità ( per cui A è A oppure << x = x >> ) e con la tendenza a chiudere la comprensione di ogni oggetto del nostro pensiero come in un cortocircuito che lo estragga dal flusso discorsivo e lo isoli da tutto ciò che esso non è. Anche Platone affermò che la contrapposizione tra finito ed infinito è una condizione intrinseca del nostro modo di pensare e di discorrere. Ogni cosa ha in sé connaturati il limite e l’illimitato, o l’uno e il molteplice. Ogni oggetto è ravvisabile come un tutto completo, sinteticamente visibile e tangibile; ma esso è anche l’insieme di tutte le sue parti, che costituiscono una molteplicità infinita, sfuggente ad un’effettiva ed esaudente enumerazione. Nell’antichità Boezio arrivò a parlare dell’illimitato come di un mostro di malizia non sostenuto da alcun principio, sempre sfuggente a qualsiasi definibilità. L’imbarazzo principale, già denunciato da Aristotele, era dovuto alla contraddizione della regola per cui l’atto precede logicamente e naturalmente la potenza.

L’eccezione più tipica e il numero che pur potendo aumentare illimitatamente configurandosi ad ogni passo come entità attuale non raggiunge mai la conclusione cui la sua indefinita accrescibilità sembra orientata; l’atto che dovrebbe racchiudere e dar senso a questa potenzialità sembra addirittura non esistere. In epoche recenti Spinoza, Hegel e Leopardi colsero la negatività dell’infinito potenziale rapportandolo al desiderio e all’immaginazione. Leopardi scrisse nello Zibaldone che il più riposto motivo della tendenza dell’animo umano all’illimitato risiede principalmente nel desiderio del piacere e del sottrarsi di quest’ultimo ad una qualsiasi definitiva saturazione. La natura più profonda del desiderio è la sua proiezione su di un oggetto assoluto ed inesistente, non identificabile in nulla di definito. Hegel vide nell’Estetica il simbolo del falso infinito, che si configura nell’indefinita ripetizione dell’atto volto al raggiungimento della sua meta illusoria: la monotonia è un elemento sempre presente nell’infinito potenziale. Il senso “positivo” del limite e la forza dissolvente dell’illimitato furono intuiti e sentiti in ogni loro aspetto da R.Musil.  <<Onestà, continenza, cavalleria, musica, la morale, la poesia, la forma, il divieto, tutto ciò non ha altro scopo più profondo che dare alla vita una forma limitata e precisa>>. <<La felicità senza limiti non esiste. Non v’è grande felicità senza grandi divieti. Anche negli affari non si può correre dietro a qualunque profitto, se no non si approda a nulla. Il confine costituisce l’arcano del fenomeno , il segreto della forza, della fortuna, della fede e del problema di sostenersi, uomo microscopico, nell’universo sconfinato>>.

Ma il limite incarnato in qualche regola morale o norma etica non può sostituire un assoluto e deve essere alimentato, per sopravvivere, da una prima ininterrotta forza e necessità interiore: esso è sempre soggetto all’effetto dissolvente dell’illimitato. Sicché <<è altrettanto vero>> osserva Musil  << che la nostra morale è la cristallizzazione esterna di un movimento interiore pienamente diverso da essa>>.

 <<L’attitudine al bene, la quale in qualche modo è pur presente in noi, corrode subito le pareti se la si rinchiude in una forma fissa,  e attraverso quella fessura si butta al male!... I sentimenti non sopportano di essere legati>>. E ancora: << Guai se la fede è vecchia di un’ora !>>.

 

Ogni volta che la crisi di un’epoca sembra trascinare con sé la disgregazione della morale vigente e l’illimitato travolge le forme appassite e vuote del limite, l’estrema difesa e ricapitolazione di uno stato che consenta una sopravvivenza etica è suggerita da Ulrich: una morale che sia dotata di reale potere di accrescimento e non sia soggetta a periodiche catastrofiche sconfitte dovrebbe non su un ordinamento stabilito per l’eternità bensì sull’ininterrotta attività di una fantasia creatrice, non regolata dall’arbitrio, capace di plasmare gli avariati suggerimenti che scaturiscono dall’infinito complesso delle possibilità di vivere. La morale andrebbe costruita con l’esperienza. La forza morale è in questo modo decomposta  e ricondotta al suo puro substrato materiale; mentre le scoperte della fantasia sono pur esse delle forme, in cui non si può nutrire un’incondizionata fiducia.

 

 

Il limite

 

Apparentemente, vi fu una ricerca al fine di attualizzare l’infinito, assolvendolo dalla negatività al suo essere semplicemente potenziale che sembra condurre ai tentativi atomistici di individuazione di un << minimum >>, cioè di un infinitesimo dato in atto, in grado capace di risolvere in Essere il divenire illimitato della divisibilità del continuo. Vengono allora alla mente gli accenni di Platone ad una intuizione atomistica dello spazio, oppure gli atomi di Democrito. Ma le teorie di quest’ultimo, come quelle di Epicuro erano riferite alla materia; e la durezza, compattezza della sue parti elementari non volevano rappresentare l’essenza di ciò che si sarebbe potuto chiamare un infinitesimo. Gli atomi erano piccoli, ma non infinitamente piccoli. Antifonte argomentava: <<in un cerchio è possibile inscrivere un poligono regolare con un numero di lati arbitrariamente grande; inoltre è possibile costruire un quadrato di area uguale a quella di qualsiasi poligono regolare. Se allora si aumenta indefinitamente il numero dei lati del poligono inscritto nella circonferenza, ogni lato si approssima sempre più all’arco sotteso, e l’area compresa tra il poligono inscritto e la circonferenza si riduce sino a raggiungere una grandezza arbitrariamente piccola. È possibile a questo punto concludere che il poligono si identificherà alla fine con il cerchio e che i suoi lati saranno tanto piccoli da poter essere considerati come archi, se pur minimi, della circonferenza.>>

Un arco minimo di circonferenza non si distingue da una minima porzione di linea retta, e quindi un poligono regolare con un numero infinito di lati non si distingue da una circonferenza. Queste tendenze non furono seguite, essenzialmente perché si ritenne più equa la filosofia di Aristotele, per cui l’infinito era visto come qualcosa al di là della quale si trova sempre qualche cosa d’altro. Quindi l’apeirsn  non ammette nessun termine finale, ma solo un indefinita sviluppo  quindi l’insieme dei poligoni non può avere un termine conclusivo che coincide con la circonferenza.

Alla fine del secolo scorso Weierstrass dimostrò non solo che l’infinito poteva essere inteso nel senso potenziale, ma che l’allusione a tale potenzialità poteva essere rimossa mediante un linguaggio matematico che alludesse a quantità semplicemente  finite, ed eliminasse addirittura l’uso esplicito del termine infinito. Ripensando agli argomenti di Antifonte in essi interviene una sequenza di poligoni che di certo non è illimitata, essa è orientata  nella sua illimitatezza verso una fine rappresentata dalla circonferenza. La circonferenza è un limite che ‘comprende’ la successione illimitata dei poligoni pur non costituendo un termine effettivo. Ciò significa che è possibile configurare fisicamente la situazione finale di un processo illimitato pur non rinunciando al carattere potenziale di quest’ultimo : l’inesauribilità dell’illimitato resta un fatto irriducibile. Si pensi alla somma di  una qualsiasi serie infinita convergente : si tratta ivi di un limite concretizzabile in un ente matematico ben definito che non appartiene tuttavia alla successione definita delle somme parziali che tendono ad esso. Il limite non è un termine della successione e non è per ciò una semplice approssimazione del risultato. Aristotele scrive che la causa finale rappresenta un fine  di tal natura da non essere condizionato da altro, ma da condizionare esso stesso l’esistenza delle cose. Successivamente Leibniz, Bolzano, Cantor  si sarebbero adoperati allo scopo di indicare in modo esplicito l’infinito con ‘qualcosa’  suscettibile di manipolazione come segno tangibile dalla meccanica dell’algebra.

Questo riuscì solo in parte, e fu lasciata intatta l’idea che esso era destinato a un’irriducibile impenetrabilità. I Greci preferirono designare tale impenetrabilità come assurdo. Per Euclide un punto geometrico è definito come ciò che non ha parti, è in definitiva un ‘nulla’ e un ‘nonsenso’. Il punto tuttavia esiste ed è il sostegno della struttura ordinata dell’apparenza visibile: la ragione è che in esso è racchiuso un rapporto , una mediazione armonica tra due infinità di segmenti; ma ogni mediazione armonica altro non è che un limite, e il limite, è proprio quella cosa che fa riconoscere, in ciò su cui esercita la funzione di confine, la  natura dell’infinità. Il punto è un limite, eppure possiede l’illimitato; esso è il confine decisivo delle figure perché regge la catena dei successivi rimandi dell’illimitato a ciò che lo argina e lo contiene. Ove incontra un punto che lo limita un illimitato è perciò suscettibile di mutare la propria natura. C’è un esempio classico ove sorge l’opportunità di distinguere diverse forme di infinito : il primo argomento di Zenone contro il moto. In tale argomento si sostiene che chi desidera percorrere una unità di lunghezza non potrà mai portare a compimento la sua impresa, perché dovrà percorrere la successione infinita di intervalli in cui l’unità è divisibile per dicotomia. La realtà vuole però che i viaggi percorsi ad una velocità costante percorra l’unità di lunghezza entro un tempo finito. Con la notazione matematica di limite si può dunque pensare di disporre di una sorte di disporre di una sorta di soluzione del paradosso che renderebbe inesauribile la serie, in un un’entità totale, formalmente compiuta, qual è l’avvenuto percorso dell’unità di lunghezza nell’unità di tempo. Pur conservando in sé l’idea di un processo e di una potenzialità illimitata il limite ha il potere di risolvere tale potenzialità in un’unità formale. La dimostrazione di Zenone induce un metodo generale di riduzione all’assurdo. Molte tra le confutazioni ai paradossi di Zenone si appellarono comunque al principio del limite e alla intuibilità di fatto di ciò che risulta imprendibile solo in virtù di un’analisi sofisticata escogitata a posteriori. Recentemente A.Grùnbaum  ha dimostrato che l’applicazione della teoria aritmetica dei limiti alla risoluzione del paradosso è giustificata dalla struttura metrica del tempo fisico. La coscienza umana del tempo ammette un limite inferiore di percettibilità, ovvero una soglia minima al di là della quale gli intervalli temporali svaniscono in una piccolezza inimmaginabile. Se si tentasse una indefinita contemplazione cosciente di <<tutti>> gli intervalli della successione, questa si concretizzerebbe in un’infinità innumerabile di atti mentali, e la durata di ciascuno di essi sarebbe maggiore della soglia minime consentita. Così per Grùnbaum l’argomento di Zenone è illegittimo perché utilizza quella che in fondo altro non è che un’inevitabile confusione tra due forme incompatibili del pensiero. Immaginare di percorre un intervallo indefinitamente piccolo vuol dire scontrarsi con la finzione. Eppure è proprio la finzione ad affacciarsi nell’analisi dell’accadimento, di ciò che si presenta come fatto certo. Questo fatto è in realtà descrivibile con lo stratagemma aritmetico del << passaggio al limite>> con cui si aggira il rischio di pensare uno per uno gli intervalli cadendo nell’errore di confondere due durate incompatibili. Anche Aristotele sostenne l’esistenza di un intervallo di tempo minimo necessario al compimento di una qualsiasi azione l’obbiezione di Aristotele a Zenone fu soprattutto la distinzione tra infinito per addizione ed infinito per divisione. Se si considera un’unità di lunghezza e la si addiziona a sé stessa infinite volte si ottiene una distanza illimitata non percorribile in un tempo finito, ma se si figura l’illimitato secondo un procedimento in qualche modo opposto ecco che l’infinità può considerarsi in qualche modo esauribile entro un intervallo limitato di tempo. L’infinità dei sottointervalli in cui è divisibile l’unità di lunghezza è interamente contenuta in una totalità limitata che può costituire l’oggetto di un’intuizione empirica. Così una materia entro i limiti di un corpo finito è visibile e tangibile nella sua interezza . Kant rilevò la distinzione tra <<progressum in infinitum>> come tipicamente esemplificabile negli infiniti per divisione di una totalità empirica  e <<progressum in indefinitum>>, che non conosce limitazione di sorta se non quella, provvisoria, che gli può essere assegnata ad ogni suo passo prima di giungere a quello successivo. L’attualità e il limite fornirono in ogni tempo il presupposto irrinunciabile di ogni teoria della conoscenza, la stessa essenza discriminante del pensiero, l’irriducibile criterio di ogni ordinamento concettuale e attività d’astrazione. Gli elementi limitanti prevalgono solitamente sulle cose limitate essendo infondo più uniformi, più indivisibili e anche più antichi. Scrisse G.Bruno che l’intelletto logico è libero di dividere indefinitamente una data grandezza o di formarne un’altra col discorso; ma non può credere che i suoi prodotti siano conformi alla natura delle cose, poiché il processo dell’intelletto è <<pura finzione>>. Per Bruno il fondamento reale del continuo era da cercarsi, non con la facoltà discorsiva dell’immaginazione astratta, ma con l’intelletto che giunge là ove non arriva nessun progresso illimitato.

 

 

L’esclusiva intelligibilità di ciò che è attuale sotto diversi angoli visuali, in epoca moderna, da filosofi come Cartesio, Hume, Whitehead, W.James, Wittgenstein. Cartesio osservò che le figure che appaiono in sogno, come gli oggetti reali cui esse somigliano, sembrano potersi riferire a forme e modalità di esistenza più semplice e più generali cui è difficile negare un attributo di realtà e autenticità. Tali sono la natura corporea in generale il tempo e lo spazio in cui sono immersi. << Quando percepiamo un attributo, concludiamo che qualche cosa di esistente, o qualche sostanza, alla quale essa possa essere attribuito, è necessariamente presente, poiché ogni percezione chiara e distinta è senza dubbio qualcosa, e perciò non può far derivare la sua origine da ciò che è nulla...>>.

Whitehead vide in ciò una conferma al principio Aristotelico secondo cui nulla esiste se non ciò che è attuale. Hume cercò un fondamento e un sostegno della vaghezza delle impressioni sensoriali. Egli riconobbe che la capacità della nostra mente non è illimitata e che perciò non può esaurire l’indefinito percorso di un infinito potenziale. È per questo, per lui, che la divisione delle idee deve arrivare ad un termine ultimo e che l’immaginazione deve raggiungere un <<minimun>> che non possa avere suddivisione successiva. Egli scrisse che anche per le percezioni sensoriali si passa dal nulla al minimo percettibile. Il carattere formale e limitato di ogni esperienza fu anche visto sotto l’aspetto di una ‘atomizzazione’ della realtà. Essa si manifesta sin dalla percezione del carattere puramente spaziale o temporale di ogni esistenza. W.James arrivò alla soglia estrema dell’esistenza come attualità. Egli scrisse: << o la vostra esperienza non è di nessun contenuto e di nessun mutamento, oppure essa consiste di una percettibile porzione di contenuto e di mutamento. Il vostro apprendimento della realtà precede letteralmente per via di semi e stille di percezione. Intellettualmente e indirettamente potete dividerle in componenti; ma in quanto date immediatamente esse si presentano nella loro interezza, oppure non si presentano affatto>>.

Gli ‘ ’oggetti  semplici ‘ ’ di Writtgenstein rispondono anch’essi alle esigenze della priorità dell’attuale. Usando le sue parole: << La complessità di un oggetto, se è determinante per il senso di una proposizione, deve essere raffigurata nella proposizione nella misura in cui determina il senso della proposizione. E, nella misura nella quale la composizione non è determinante per questo senso, in questa misura gli oggetti di questa proposizione sono semplici. Essi non possono essere scomposti ulteriormente, sicché l’esigenza delle cose semplici è l’esigenza della determinatezza del senso>>.

Ogni proposizione appare così perfettamente articolata in parti semplici, ed è perciò perfettamente sensata, anche quando sussiste una sua indefinita scomponibilità teorica , implicata in quel grado di generalità e vaghezza che costituisce tuttavia la sua <<forma>>, cioè in definitiva il suo limite. Scrisse Cusano :<< La forma infinita è ricevuta solo in modo finito, sicché ogni creatura è, per così dire, un’infinità finita o un Dio creato, per essere nel modo migliore possibile: come se il creatore avesse detto: ‘’Sia fatto‘’. Ma siccome Dio, che è l’eternità, non poté essere fatto, fu fatto ciò che poté essere fatto più simile a lui. Ne consegue che ogni creatura come tale è perfetta, anche se sembra meno perfetta di un’altra>>.

Si ha l’impressione di una vittoria del potenziale sull’attuale, dell’assenza sulla presenza formale, e una sintesi di tale verità è riassunta in un frammento di Novalis: << Tutto ciò che è visibile è attaccato all’invisibile, l’udibile al non udibile, il sensibile al non sensibile. Forse il pensabile all’impensabile>>.

 
Numeri irrazionali

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La verità per cui nulla ‘esiste’ se non ciò che è attuale sembrerebbe contraddetta da una circostanza: l’esistenza dei numeri irrazionali. Ma di che genere di esistenza si tratta? Un numero irrazionale, cioè un numero non rappresentabile come un rapporto tra due numeri interi, non può essere scritto in nessun modo come sequenza finita di cifre; se si tenta di esibirlo in forma esplicita le sue cifre si dispongono, per lo meno a partire da un certo punto, senza nessun ordine apparente o legge di formazione;  esse sembrano distribuite a caso, come se si trattasse del risultato di successivi, indefiniti,  lanci di un dado (le cifre del p si presentano, tuttavia, con una singolare forma di ordine). L’irrazionale si configura, al suo primo apparire, come una pura impossibilità, quella, ad esempio, di rappresentare mediante una frazione razionale il rapporto tra il lato e la diagonale di un qualsiasi quadrato: tale impossibilità è designata dal simbolo  Ö2  (   Ö2 è appunto il rapporto numerico tra la lunghezza della diagonale e del lato di un quadrato riferite ad una stessa unità di misura: essi sono perciò detti <<incommensurabili>> ). Non si andrebbe avanti nella verità se si affermasse che un numero irrazionale non esistesse affatto, pur conservando la certezza che esso designa indubbiamente ‘qualcosa’. Esso sembra comunque sprovvisto di un’esistenza attuale; esso non può essere esibito come l’insieme di tutte le sue cifre. La scoperta di grandezze geometriche incommensurabili fu attribuita da Aristotele ai Pitagorici, anche se di certo si sa che essi erano già conosciuti sin da due o tre secoli prima.  G. de Santillana e H. von Dechend scrissero : << l’ordine del Numero e del Tempo era un ordine totale e a cui tutti  - dei, uomini, animali, alberi e cristalli, gli stessi assurdi astri vaganti - appartenevano, tutti soggetti a legge e misura>>. Appare ivi dimostrato che l’ordine cosmico basato sul numero non fu prerogativa dei soli Greci : ma di molti dei più svariati popoli della terra.  Platone insegna a contare seguendo le più elementari leggi dei fenomeni terrestri; ma la capacità descrittiva delle proporzioni numeriche si estende dagli eventi stellari, che ne costituiscono il primo modello ad ogni fenomeno esistente in natura. Nel Filebo si spiega come lo status ottimale di una forma e il carattere di stabilità di un oggetto si esprimono in una proporzione ben definita : in essa resta fissato un punto limite in cui si risolve l’indefinita capacità di evolversi dell’oggetto e al di là del quale è momentaneamente inutile procedere. La condizione di salute di un uomo è ad esempio il risultato di un rapporto ottimale tra il secco e l’umido, e quando esso è realizzato non ha senso superare il limite raggiunto. Ogni sviluppo è una tensione a qualche tipo di stabilità nel corso della quale << il più ed il meno >> o << il grande ed il piccolo >>, non ancora opportunamente disciplinati, possono alternarsi in infinite oscillazioni prima di raggiungere l’equilibrio. Anche la scienza del discorso è basata sul numero : che è anche analogia, relazione corrispondenza, è sinonimo di rapporto, ed in particolare rapporto tra i numeri. Ignorando il  numero, fa notare Platone, si perderebbe la stessa facoltà di pensare e di giudicare e non si vivrebbe che di sensazioni e di ricordi. Ma il numero irrazionale sfugge ad ogni idea di rapporto e dunque di proporzione, ed essendo irrazionale per tal motivo ignoto ed inconoscibile, ci si domanda se esso può legittimamente annoverato come numero. L’unico punto di mediazione per eccellenza, l’ultima verità ove svanisce ogni sbilanciamento e oscillazione riproducente l’eterna bipolarità del limite e dell’illimitato e rivelato in un frammento di Anassimandro : <<Principio degli esseri è l’indefinito... da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità : poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’esplicazione della ingiustizia secondo l’ordine del tempo>>. Quell’impenetrabile ingiustizia ed equilibrio generale da cui è regolato il perenne alternarsi,  nella realtà delle cose, di vicendevoli squilibri coincidenti dunque con l’assoluta infinità. Comunque  se si tentasse di concepire un numeri irrazionale come un’entità attuale si incorrerebbe in ogni sorta di paradosso. L’irrazionale non è un infinito attuale in senso categorico, bensì piuttosto l’analogo di qualsiasi altra cosa che si ponga come l’invisibile soluzione di un processo illimitato e teologicamente ordinato; non è il vero infinito, matematicamente irrapresentabile, ma un analogo della transfinità, successivamente descritta da Cantor come nozione semplicemente allusiva all’infinità. Il punto geometrico sembra del resto ancor meno definibile di un numero irrazionale; e ancor meno comprensibile è il senso da attribuire alla sua appartenenza ad una retta. Basti pensare che togliendo un punto si creerebbe realmente il <<vuoto>> tra due punti. Già Platone stabilì che i punti sono una <<finzione>>dei geometri, e attribuì loro l’unica proprietà di delimitare porzioni di retta. I successivi platonisti, per esprimere l’impossibilità di ridurre il continuo ad un insieme attuale di indivisibili, parlarono della linea come flusso di un punto, espressione di cui si servi poi Newton nella sua teoria dell’infinitesimale.

 

Aristotele negò che la continuità derivasse da una composizione di punti contigui e scrisse che il continuo non è descrivibile mediante la relazione che lega un insieme ai suoi elementi, bensì mediante i concetti di <<parte>> e <<tutto>>. Ockham, in sostanziale accordo con Aristotele, distinse <<continuità>> da <<contiguità>>, escludendo che la prima potesse risolversi in una giustapposizione di parti indivisibili (cioè punti) contigue. Lo stesso dicasi per la continuità nel tempo, che non si risolve in una composizione di istanti: <<l’istante non è un’entità assoluta tale da poter essere distinta da ogni entità divisibile>>. Come l’attualità di un continuo non consiste nelle parti in cui è divisibile così << il tempo è nell’intero movimento dell’intero cielo e non è in alcuna parte di movimento di alcuna parte di cielo>>. Gregorio da Rimini chiamò grandezze fittizie i punti, le linee e le superfici e osservò che il geometra non ha bisogno di supporre che esistano realmente: esse sono creazioni dello spirito. Con i punti, le linee e le superfici si può in ogni caso costruire una Geometria fittizia dalla cui esemplare chiarezza l’intelletto possa ricevere sussidio per una migliore comprensione della realtà. Leibniz concepì successivamente l’infinito matematico come ente ideale, cioè immaginario, ed elaborò una teoria relazionale dello spazio assegnando ai punti geometrici una funzione analoga a quella di Platone. Cantor dimostrò, pur fornendo una definizione matematica attendibile, che il continuo non è numerabile, cioè che non se ne possono contare tutti gli elementi costitutivi,  uno per uno, mediante numeri interi. E.Borel interpretò il risultato di Cantor come la prova dell’esistenza di una componente indefinita nel continuo. Brouwer scorse nelle localizzazioni puntuali del continuo (in particolare nei numeri irrazionali) non tanto dell’entità attualmente definibili quanto delle successioni di numeri naturali susseguentisi nell’ordine decretato da una legge aritmetica o da una <<libera scelta>>. Nel secolo scorso Vincenzo Gioberti insegnò a scorgere nel continuo, secondo una prospettiva teologica, la più nitida immagine della partecipazione alla perfezione divina ed al nesso tra essa e la creatura finita.

Egli scrisse: << La creazione matematica è la più viva dell’immagine di Dio. Il mezzo, l’ilo, l’unione, la distanza, il vincolo, il contatto di due o più cose sono misteriosi, perché si radicano nel continuo dell’infinito. L’intervallo che corre tra un’idea ed un’idea, una cosa e una cosa è infinito, e non può essere superato che dall’atto creativo. Ecco il perché il momento dinamico e il concetto dialettico del mezzo non è meno misterioso di quello del principio e della fine. Il mezzo è l’unione di due diversi ed opposti in un’unità. È un concetto essenzialmente dialettico, e involge una contraddizione apparente, cioè l’identità dell’uno e del molteplice, del medesimo e del diverso. Tale unità è semplice e composta; è unità e sintesi o armonia. Tiene dei due estremi senza essere né l’uno né l’altro. È il continuo, e perciò l’infinito. Ora l’infinito riunendo identicamente i contrari ci chiarisce la natura dell’intervallo. Nel moto, nel tempo, nello spazio, nei concetti, il discreto ci è facile a capire, perché finito. Il continuo e l’intervallo sono misteriosi, perché infiniti. >>. 

Gioberti scorse l’importanza dell’unità indivisibile e dell’idea esemplare, dell’identità coordinatrice, del centro dialettico conciliativo ed armonizzante. Nel legame visibile e invisibile tra le cose, nel tessuto connettivo del reale è riconoscibile l’impronta dell’infinito attuale : il quasi o la similitudine << da un lato rasenta l’identità, e dall’altro importa una diversità infinita, perché il minimo è massimo, essendo entrambi infiniti. La ragione di tale contraddizione apparente l’infinità dell’idea, di cui le cose create sono copie. L’idea essendo una ed infinita somiglia e dissomiglia infinitamente a se stessa, e tal somiglianza e dissomiglianza infinita è l’archetipo della somiglianza e dissomiglianza finita delle creature tra loro >>.

 

 

L’infinito di San Tommaso  

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Esaminando la definizione d’insieme che G.Cantor propose alla fine del secolo scorso non può che sorprendere l’evidenza della sua somiglianza con una definizione d’insieme già formulata da San Tommaso d’Aquino più di sei secoli prima. Per Cantor un insieme è la riunione in un tutto di oggetti determinati e distinti della nostra intuizione  o del nostro pensiero. Per San Tommaso un insieme è un aggregato di unità distinte, ovvero : << un insieme è un composto di unità delle quali ciascuna è distinta dall’altra>>. Ambedue le definizioni vogliono cogliere l’essenza di ciò che si suppone debba essere un’insieme, ma nella definizione di Cantor l’urgenza della funzionalità matematica apparve prioritaria. Fu soprattutto da motivazioni matematiche che  Cantor  fu portato a giustificare l’esistenza di insiemi attualmente infiniti e la loro collegabilità ai numeri transfiniti. Al contrario ogni conclusione sulla definizione di insieme fu per San Tommaso un semplice corollario di regole metafisiche. Del resto la nozione cantoriana di numero transfinito non era nata come necessità ma piuttosto come opportunità, non come obbligatoria deduzione ma come libera creazione del genio matematico. Cantor sostenne dunque l’esistenza di insiemi attualmente infiniti e di numeri infiniti; San Tommaso, sei secoli prima, l’aveva invece autorevolmente negata, argomentando che se gli elementi di un presunto insieme infinito fossero concepibili tutti simultaneamente, essi potrebbero essere contati uno ad uno, risultando così inevitabilmente in numero finito e generando quindi una contraddizione. Ma le conclusioni tomiste traevano la loro forza dalla loro verità, più ancora che dalla correttezza logica, dalla loro riferibilità a una visione del mondo di cui Cantor non aveva ormai che una debole percezione. L’incompatibilità delle tesi tomistiche con quelle cantoriane era semplicemente  l’incompatibilità delle due diverse concezioni del mondo che le avevano generate. Nella Summa theologica si accenna in termini molto chiari alla pura illogicità di un eventuale creazione divina di un oggetto che sia assolutamente infinito. Scrive San Tommaso : << Dio può fare ciò che vuole, ma il fare provoca l’esistenza di ciò che è fatto, e ciò che è fatto, appunto perché è fatto, non può essere in tutto e per tutto senza limiti.>> San Tommaso negava l’esistenza dell’assoluto infinito al di fuori di Dio. L’Onnipotenza Divina venne in seguito, da alcuni, estesa alla creazione di quantità infinite, e fu questo un segno evidente della fine dell’apeirsn inteso come sinonimo della componente negativa di ogni fondamentale bipolarità dell’esistenza. Aristotele aveva eliminato ogni possibilità di confusione tra il falso infinito dell’apeirsn e l’infinita perfezione divina togliendo semplicemente a quest’ultima ogni attributo di infinità; essa era designata da termini alludenti alla sua totalità, alla sua eternità ma mai alla sua illimitatezza. San Tommaso non osa seguire l’impostazione Aristotelica e accetta la tesi secondo cui Dio è infinito, ed eterno, ed incircoscrivibile; ma aggiunse immediatamente che l’infinito può essere di due opposte nature; l’una riducibile all’idea di forma, l’altra all’idea di materia. La distinzione dei due infiniti, non così dissimile dalla distinzione tra infinito potenziale ed attuale, era così un motivo di conciliazione tra la tesi cristiana dell’infinità di Dio e la decisa assegnazione aristotelica dell’infinito al principio materiale dell’essenza. Per Tommaso l’infinità assoluta appartiene solo a Dio, mentre ciò che è altro da lui non può essere altro che finito oppure infinito ma in modo relativo, cioè corrispondente alla sua natura specifica. Egli fa comprendere che l’infinito attuale se considerato nell’ambito dell’umana comprensione altro non è che un infinito potenziale, cioè inesistente. L’infinito quantitativo, dal punto di vista matematico, sta’ dalla parte dell’infinito potenziale ed è quindi visto in modo negativo, non riconducibile a Dio; infatti come Aristotele egli pensava che per i calcoli dei geometri non servisse l’infinito attuale. Il contorno superficiale degli oggetti, sono per San Tommaso il termine ed il confine per eccellenza della potenzialità illimitata di ogni substrato materiale, nonché il miracoloso punto di incontro  e di equilibrio tra la forma perfetta di Dio e le forme limitate dell’esistenza. Anche quando sostiene che l’infinito, di ogni genere esso sia, è ignoto, San Tommaso all’inconoscibilità dell’infinito, aggiunge l’imperscrutabilità dell’essenza divina. Dall’impossibilità di un insieme attualmente infinito proveniva la finitezza dell’ente con cui l’insieme era misurato, cioè del numero. Una volta definito un insieme come aggregato di unità distinte, il numero corrisponde ad un’ulteriore operazione intellettuale che arricchiva l’insieme di una misura, e quindi di un ordine, precisando ulteriormente il carattere formale della sua concepibilità come un tutto limitato. L’insieme è enumerato una per una nelle sue singole  ed indivisibili unità che lo costituiscono.

 

 

L’ultima unità contata determina il risultato finale costituito da un’unità numerata per forza limitata. San Tommaso dice che necessariamente ogni oggetto creato deve essere compreso da un numero e si potrebbe inoltre aggiungere, che l’infinito coincide pitagoricamente proprio con la parte non <<misurata>>, non creata del cosmo ed è per questo motivo ancor più incompatibile col numero.

L’associare il numero al concetto di misura induce San Tommaso a concepire il numero infinito come nozione contraddittoria, priva di senso, inutile e furviante per chiunque volesse cogliere nella perfezione della forma limitata l’insondabile perfezione di Dio.

 

 

Infinito categorematico e infinito sincategorematico

 

Il Medioevo inventò e discusse un’originale formula di distinzione tra i concetti racchiusi nell’infinito attuale e potenziale. Infatti l’infinito attuale era designato col termine <<categorematico>>, l’altro, quello potenziale, era designato col termine <<sincategorematico>>. La potenza doveva comunque presupporre sempre un fine cui è diretta e quindi non può fare a meno dell’atto. Nell’infinito sincategorematico e nelle formule che furono escogitate per designarlo era tolta ogni allusione alla potenzialità e quindi ogni possibilità di realizzazione in atto che essa comporta. Nel modo in cui il concetto fu precisato successivamente da Gregorio da Rimini, il carattere ‘aperto’ dell’infinito sincategorematico, come pure la ripetitività del puro finito in cui esso consiste, si poteva caratterizzare nella seguente circostanza: data una quantità finita, comunque grande, esiste una quantità ancora più grande. Si può quindi affermare che infinito nel senso sincategorematico è lo stesso corpo finito, poiché ad ogni corpo finito ne corrisponde uno più grande. All’opposto, l’infinito categorematico era l’attributo di un soggetto che si ponesse come <<qualcosa>> di più grande di qualsiasi grandezza finita suscettibile di esistenza. Un esempio dei più discussi era quello della linea gyrativa: Si pensi a un cilindro di altezza h unitaria, e lo si divida in parti proporzionali, cioè lo si decomponga in una successione infinita di cilindri le cui altezze formino una progressione geometrica di  ragione ½ . Sulla superficie del primo cilindro parziale si disegni un’elica di passo uguale alla sua altezza, quindi la si prolunghi sul secondo cilindro parziale, di altezza ¼ = ½^2, con un altro tratto di elica di passo ¼ . Sull’n-esimo cilindro parziale ( n = 3,4,5,... ) si prolunghi la linea gyrativa, giunta fino ( n-1 ) - esimo-cilindro con diversi passi decrescenti, con n-esimo tratto di elica  di passo ½^n . Ci si può chiedere infine di che specie è l’infinito realizzato dai vari tratti di elica che percorrono complessivamente la superficie del cilindro inizialmente considerato. Nel caso si ritenga che la concepibilità dell’intero cilindro come un tutto attualmente dato determini l’esistenza della linea gyrativa come infinito categorematico ci si terrà autorizzati ad affermare che << la linea gyrativa è tracciata lungo tutte le parti del cilindro. L’eventuale attribuzione alla linea di un’infinità sincategorematica si può invece esprimere dicendo che <<lungo ogni parte del cilindro è tracciata una linea gyrativa >>. Una semplice permutazione di parole è atta così a scambiare tra loro i due opposti punti di visualizzazione della fuga dell’illimitato: l’uno consiste in un limite attuale da cui si può contemplare la potenzialità indefinita  della successione ad esso orientata, l’altro incentrato, anziché su un ideale punto di arrivo, sul carattere incessante del mero processo di accrescimento. Veniva osservato che qualora l’infinito categorematico divenisse l’attributo di un soggetto, ne scalzava perciò ogni carattere di attualità ed incertezza. Non che l’infinito sincategorematico non potesse in realtà riferirsi a un soggetto, ma l’individualità di quest’ultimo veniva automaticamente frantumata da tale attribuzione e perdeva perciò ogni precisione di contorno: nell’affermazione che <<un’infinità di uomini sta’ correndo>>, la parola <<uomini>> non designava che una moltitudine confusa, e non un insieme di individui determinati; né la possibile aggiunzione di due o tre individui può mai alterare il senso dell’affermazione. La difficoltà se si osservo  nell’esempio della linea gyrativa consisteva probabilmente nell’enigmatica sovrapposizione delle due opposte nature di illimitato: l’indefinito per aggiunzione dei tratti di elica, tipicamente sincategorematico e in sé senza soluzione, e l’infinito per divisione in parti proporzionali dell’intero cilindro che rappresentandosi a priori come un tutto attuale, poteva consentire all’insieme delle sue parti un attributo di infinità categorematica. Nelle argomentazioni logiche di Duhem vi è spesso una corrispondenza e una mescolanza tra infinita potenza di Dio e l’indefinitezza dell’apeirsn. L’intervento divino veniva spesso inserito nel gioco delle infinite assurdità provocate nella realtà  delle forme dal potere dissolvente del falso infinito; e di quest’ultimo seguiva gli interminabili passi successivi, secondo la logica del divenire, orientandosi ad un’immaginaria soluzione costituita dalla forma: ‘‘l’infinito in atto’’. In tal modo l’illimitatezza dell’apeirsn cominciava a manifestarsi  come un plausibile segno, nel mondo, dell’illimitatezza divina; confusione rischiosa perché l’infinito divino e quello dell’apeirsn dovrebbero tenersi distinti. Gregorio da Rimini divise l’unità di tempo in parti proporzionali di lunghezze  ( ½, ¼, .....) per dicotomia; ed immagino che Dio potesse creare in ciascuna porzione una pietra. È evidente che al termine di un’ora Dio avrà creato una pietra infinitamente grande. La ‘dimostrazione’ di Gregorio pretendeva che la potenza di Dio potesse rivelarsi nell’assurdità di una materia infinitamente dilatata, e che l’infinito attuale si realizzasse nella tangibilità di un simile prodigio.

 

 

Zenone nel suo esempio aveva affidato nel potere dell’illimitato l’annientamento del limite rivelato dall’esperienza sensibile e dalla ragione. Egli aveva indicato l’immobilità dietro al velo di una realtà illusoria. A Gregorio da Rimini la negatività dell’apeirsn si muta nel suo opposto, cioè nella positività di una crescita illimitata capace di concludersi, nella perfezione di una forma immanente. Gregorio aveva col suo esempio esteriorizzato il mistero dell’infinito ( una pietra infinitamente GRANDE  ).  La rottura col limite intrinseca nella crescita a dismisura (della pietra) che dipendeva dalla capacità divina di superare la soglia minima del tempo; perché si credeva che Dio non dovesse essere assoggettato a tale limite, e quindi la successiva visione del limite come un qualcosa di negativo. Naturalmente tali argomentazioni erano sostenute con l’insistenza sull’assoluta onnipotenza di Dio.  Comunque anche Gregorio da Rimini intese la perfezione della forma alla stregua dei Pitagorici, ovvero come il limite di un’infinità. Quando egli scrive che ogni corpo avente un’insieme infinito in parti è un infinito in atto ovvero come affermano i Pitagorici, che in ogni cosa c’è il limite e l’illimitato. Per il francescano Riccardo da Middleton  << Dio può produrre una grandezza e una dimensione che cresca oltre ogni confine, a condizione che in ogni istante la grandezza già realizzata attualmente sia finita: nello stesso modo che Dio può dividere indefinitamente un continuo in parti la cui grandezza finisca per cadere al disotto di ogni limite, a condizione che non esista mai attualmente un numero infinito di parti realmente divise >>.

 

 

Giordano Bruno, Nicolò Cusano,  Raimondo Lullo

 

Affermando che a partire dal Rinascimento gli infinitesimi e le quantità non archimedee furono reintrodotte nell‘uso matematico e che ciò avvenne a vantaggio dell’innovazione ma anche a scapito della correttezza formale delle dimostrazioni, si direbbe una cosa esatta; ma anziché cogliere il senso complessivo di una verità si estrarrebbe da questa un semplice frammento. Può accadere, in realtà, che l’insostenibilità logica di un discorso matematico, proprio perché tale, contenga il seme di una qualche verità, o addirittura che questa stessa illogicità si tramuti nella imprescindibile caratteristica dell’unico segno visibile di idee o di realtà inaccessibili. Weil non andò lontano dal vero scrivendo che :<<l’invenzione matematica è trascendente, essa produce per analogie assolutamente non rappresentabili, di cui si possono solo constatare le conseguenze>>. In altre parole: in un senso che si potrebbe dire ‘’ assoluto ‘’ i più riposti meccanismi dell’invenzione matematica sono linguisticamente irrappresentabili. All’essenza di un ‘quid’ discorsivamente imprendibile si può quindi contrapporre l’ultima risorsa di un’arte descrittiva basata sul paradosso, sull’apparente incongruenza, sull’enigma matematicamente rappresentabile da configurazioni incompatibili con qualsiasi rigore razionale: è l’arte della <<dotta ignoranza>> di Nicolò Cusano, nonché l’ultima giustificazione della teoria dei minimi geometrici di Giordano Bruno. Per rappresentare matematicamente l’infinito, si preferì allora un linguaggio che ne esibisse i caratteri anche al prezzo di inesattezze formali incompatibili con una matematica che doveva svilupparsi nell’ambito della pura razionalità. D’altronde Lullo aveva suggerito che alla matematica dovesse aspettare anche il compito di descrivere concetti appartenenti alla sfera dell’intellettualità, e non solo alla sfera della razionalità. Nelle costruzioni geometriche di Lullo e di Cusano è continuamente presente l’antinomia come richiamo all’assoluto inesprimibile. L’illogico, il non razionale, ciò che non si può concretamente vedere disegnato su un foglio di carta sono intenzionalmente esibiti come entità di cui solo l’intelletto può cogliere la natura e l’essenza. G.Bruno spiegò la stessa cosa; egli capì che se l’antinomia è la rivelazione del vero infinito in atto quest’ultimo è necessariamente incompatibile con il mondo delle forme; se di infinito in questo mondo si può parlare, si tratta inevitabilmente dell’illimitato, dell’infinito potenziale. Il  punto invisibile intorno a cui la nostra discorsività si sforza di ripetere e riformulare le sue verità parziali, ovvero l’irraggiungibile  infinità attuale, costringe ogni altro infinito accessibile ai sensi o alla pura razionalità a una fatale partecipazione alla potenza e alla materia; sicché è inevitabile che la nostra potenza intellettiva non può apprendere l’infinito se non in discorso, o in certa maniera di discorso, com’è dire incerta ragione potenziale o attitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzione dell’immenso onde venga a constituirsi un fine ove non è fine. Per Bruno i gradi della conoscenza si dispongono in una successione di crescente perfettibilità che si articola nella ragione, nell’intelletto e in fine nella mente. Mentre la discorsività razionale non fa che aggiungere il finito al finito, dibattendosi entro un’infinità sincategorematica. Nel dialogo De l’infinito, universo e mondi è tratteggiata la paradossale corrispondenza tra l’infinità potenziale cui la nostra imperfezione ci costringe e l’infinità attuale limitante che la racchiude: l’essenza divina è ivi descritta come << termine indeterminato di cosa indeterminato; ove dico termino senza termine, per essere differente la infinità dell’uno da l’infinità dell’altro. Io dico l’universo tutto infinito, perché non ha margine, termine, né superficie, dico l’universo non essere totalmente infinito, perché ciascuna parte che di quello possiamo prendere, è finita. Io dico Dio tutto infinito perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito, e dico Dio totalmente infinito, perché tutto Lui è in tutto il mondo ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell’infinità dell’universo, la quale è totalmente in tutto, e non in quelle sue parti...che noi possiamo comprendere in quello.>> La ragione di questa differenza è che l’unità dell’universo non è affrancata alla pluralità della materia; e la materia determina una contraddizione della forma infinita nelle forme finite dell’esistenza. L’infinità attuale era già stata descritta dal Cusano come il massimo assoluto, definito come ciò che non può essere più grande, cioè come l’estrema configurazione di stabilità in cui scompare ogni possibilità di successivi aumenti e diminuzioni: il vero infinito è l’autentica risoluzione del più e meno, del grande e del piccolo. Il Cusano, accogliendo una tesi di Melisso, aveva scritto che è ovunque riprendibile una doppia infinità: un’<<infinità finiente>> e un’<<infintà finibile>>, e che dall’azione limitante della prima sulla seconda nasce  l’ente finito dal principio infinito. Dio è il termine infinito di ogni illimitatezza anche in quanto è creatore di forme, perché ogni forma è il limite di un’infinità.

L’infinità dell’universo è per Bruno il prodotto dell’infinità di Dio, che non potrebbe ragionevolmente circoscrivere la sua onnipotenza nei limiti di uno spazio chiuso. Per lui l’infinito di Dio è riconoscibile più come enigma insondabile che come estremo raggiungimento dell’illimitato sviluppo di un’infinità potenziale. La matematica non fu per Bruno una scienza

autonoma da cui estrarre a posteriori il supporto metaforico per la comprensione di verità metafisiche; essa costituì piuttosto da principio una parte della filosofia contemplativa, una scienza delle cause formali, un’arte di conoscenza a priori dei principi. Nicolò Cusano aveva ad esempio illustrato geometricamente l’infinito attuale nel concetto di rettitudine, o meglio nella paradossale soluzione finale del curvo nel retto. Quando si afferma che l’Assoluto è misura di tutte le cose si allude alla stessa verità che si enuncerebbe affermando che il retto è misura di ogni obliquo. Nel più e meno è implicito  infatti un criterio di misura che postula l’esistenza di un’entità invisibile rispetto a cui si può  dire più o meno, e che non è, essa stessa, né più né meno di altro. Il curvo è più o meno curvo a seconda della sua minore o maggiore aderenza alla retta, cioè ad un ente privo di ogni caratteristica di curvità. La retta è l’inevitabile ultimo termine di riferimento, di misura, di confronto per l’infinità di linee curve. Lo stesso dicasi per la quadratura del cerchio, che non è intuibile se non con l’occhio che trascenda la possibilità dei sensi e della ragione. Così è con l’occhio dell’intelletto che occorre indagare sulla circostanza  razionalmente inimmaginabile della coincidenza del curvo con il retto.

Questa può avvenire in due situazioni solo apparentemente distinte: nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo. Nel primo caso si può immaginare una circonferenza che al crescere infinitamente del suo raggio tende a confondersi con una qualsiasi retta ad essa tangente. Nel secondo caso si può pensare di restringere all’infinito l’arco di una circonferenza sino a che esso non lo si distingua dalla corda che lo sottende. La perfezione matematica consiste in questa  reciproca commensurabilità e conformità tra ciò che è retto e ciò che è curvo. Fu notato che la forma comincia a manifestarsi nelle costruzioni con tre punti. Infatti con due punti non si riesce a distinguere il retto dal curvo, ed il tre è il ritorno dell’unità l’illimitatezza del due, ed è perciò l’archetipo di ogni forma considerata come entità limitante. Tutte le linee geometriche, scrive Bruno, che si dispongono via via secondo i generi e le specie, sono composte dal retto e dal circolare, elementi costitutivi di tutte le immagini, di tutte le figure e di tutti i caratteri. Tre punti non allineati, definiscono un triangolo; ed ecco che questo è l’archetipo del piano, come la piramide lo è per ogni forma nello spazio. Il triangolo ed il cerchio sono descritti come i principi di tutte le figure, in quanto costituenti di una bipolarità assimilabile a forma e materia, atto e potenza, limite e limitabile (cioè illimitato). Per Lullo il triangolo ed il quadrato, costituiscono i generi principali, gli archetipi e gli essenziali punti di riferimento per ogni altra figura. È solo con la loro mediazione che ogni figura poligonale è riconducibile alla misura del cerchio che la contiene, Lullo sosteneva che tutte le misure particolari definite dai poligoni inscritti si  riducono a tre generi di numeri, ovvero al numero tre, al numero quattro e al numero circolare.

L’eguaglianza

 

Nelle sue Finzioni Borges immaginò che uno scrittore francese tentasse di scrivere, senza rinunciare ad un’ispirazione spontanea, alcune pagine che riproducessero parola per parola due interi capitoli del Don Chisciotte. L’impresa poteva benissimo essere dichiarata assurda, poiché tale impresa doveva rispondere a due leggi antichissime: quella costituita dalla libera ispirazione, e quella del copiare senza cambiare nulla. Nel tentativo del nostro scrittore non si può parlare di copiatura, e nemmeno di imitazione. Per lo scrittore l’impresa non è difficile, basterebbe vivere eternamente. Ecco dunque un paradosso che svela un’altra forma dell’infinito: l’eguaglianza. La vera eguaglianza è un punto limite irraggiungibile. Nicolò Cusano, aveva già affrontato l’argomento, osservando che le innumerevoli creature finite dell’universo si dispongono in una successione indefinita che non ha un termine concluso in nessun senso. Questa inesauribilità è trasmessa da Dio e diviene un carattere insopprimibile. Per Cusano non era possibile la perfetta duplicazione, poiché risulta evidente, per lui, che non è mai possibile l’eguaglianza precisa tra due cose distinte. In termini geometrici, l’eguaglianza assoluta del cerchio a tutte le figure poligonali attraverso la mediazione del quadrato non è realizzabile, per il Cusano, nell’ambito dell’ordinaria apparenza sensibile. La quadratura del cerchio che definirebbe la perfetta e infinita eguaglianza non è concepibile se non come evento ideale. Se si ripensa allo scrittore francese di Borges non si può fare a meno di scorgervi l’ambiguità della duplicità, della ripetizione priva di senso. Sembra di intendere che l’infrazione dell’impossibilità dell’infinito in atto generi una sorta di mostruosa caricatura del modello che si vorrebbe realizzare. Esistono diverse esempi di duplicazione caricaturale, tra le quali vi sono le antinomie, ovvero la corrispondenza speculare di due tesi contrapposte, entrambe dimostrabili ed entrambe confutabili. La pura libertà degenererebbe per l’uomo in uno stato di pura indifferenza che lo costringerebbe a restare tale. Ovvero, egli non sarebbe consono a nessuna scelta, visto che sarebbe condannato ad una duplicità irresolvibile. Wittgemstein avrebbe visto l’autonomia della volontà(ovvero la libertà pura) come un limite ove necessità e volontà coincidono.  

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Cartesio

 

Cartesio, differenzia l’infinito dall’indefinito che sono come la tradizionale differenziazione tra infinità attuale e infinità potenziale. L’indefinito rammenta pur sempre la fatale imperfezione dell’oggetto terrestre  che appare in sé privo di limite; ma indefinita è ora tipicamente definita quella cosa che, pur essendo senza limiti sotto qualche aspetto, non è tuttavia sciolta da ogni limitazione, poiché. Non può sottrarsi, se non altro, dai limiti imposti dalla sua esistenza particolare, dal suo essere ciò che è e non un’altra cosa. Infinito, altro non è che ciò in cui non si riscontra alcun limite da nessuna parte, nel qual senso solo Dio è infinito. Vi è dunque una novità, poiché per Cartesio, l’imperfezione significata dall’uso del termine indefinito consiste assai più nella presenza residua del limite che nell’apertura incessante al suo superamento.

<<Certamente>> Cartesio scrive <<non si deve ritenere cosa strana che Dio , creandomi, abbia messo in me quest’idea per essere come il marchio dell’artefice stampato sulla sua opera; e non è così necessario che questo marchio sia qualcosa di diverso da questa stessa opera. Ma dal sol fatto che Dio mi ha creato, è fortemente credibile che egli mi ha in qualche modo prodotto a sua immagine e somiglianza e che io concepisco questa rassomiglianza ( nella quale l’idea  di Dio si trova contenuta ) con la stessa facoltà per cui concepisco me stesso; nel senso che, quando rifletto su di me, non solamente riconosco che sono una cosa imperfetta, e dipendente da altri, che tende ed aspira senza posa a qualcosa di migliore e di più grande che io non sono, ma conosco anche, nello stesso tempo, che colui da cui dipendo possiede in sé tutte le cose grandi da cui aspiro, e di cui io trovo in me le idee non definitamente e solo in potenza ma in modo tale che egli ne gode effettivamente, attualmente e infinitamente, come può essere per Dio stesso>>. L’atteggiamento psichico di apertura all’illimitato che si manifesta nel desiderio è visto in questa prospettiva come riflesso di Dio nell’imperfezione dell’uomo. Esiste dunque per l’uomo un’idea positiva di infinito rispetto alla quale il limite appare un difetto e il desiderio ed il dubbio un sintomo di una volontà di affrancamento. Per N. Cusano l’uomo era l’immagine di una <<infinità finita>>, di una pienezza formale benedetta dall’occhio divino. In una lettera scritta da Cartesio a Chanut, il 6 giugno 1647, il mondo comincia ad essere descritto come una rete sterminata di rapporti funzionali priva di orientamenti assoluti. La proclamazione che Dio solo è la causa finale è usata come prova inconfutabile che nessuna creatura , nemmeno l’uomo, può considerarsi la meta definitiva di un qualsiasi ordine finalistico. Ogni cosa è suscettibile di aumento o di diminuzione, ed ogni cosa si commisura immediatamente a qualcosa d’altro. Qualsiasi oggetto diviene così irriconoscibile poiché richiederebbe l’apprendimento  di tutte le cause mediate ed immediate e di tutti i vincoli che lo legano a tutti i fatti più lontani ed irreperibili. Come dicevano i Pitagorici, l’illimitato è inconoscibile. La materia, separata dallo spirito, comincia a frantumarsi. La sua divisibilità è dichiarata e l’elemento che la caratterizza nei riguardi dello spirito è indivisibile. La verità indubitabile che il mondo ci è dato solo come idea,  come rappresentazione soggettiva, acquista con questa premessa acquista il senso particolare di una puntuale messa  in atto delle regole metafisiche che fanno scorgere ovunque apparenze ingannevoli. A partire da Cartesio, la forma si svuota del suo contenuto peculiare, cioè dell’essenza e cessa con ciò ad essere esistenza spirituale rivelata, espressione esteriore della luce divina. Kant ridusse in seguito anche le qualità primarie di ogni oggetto intuito, come l’estensione, la forma e il movimento, a universali schemi soggettivi di apprendimento. Paradossalmente questi stessi schemi che garantivano da un lato l’obiettività del conoscere erano anche la principale lente deformante con cui veniva appreso un oggetto ormai definitivamente sconosciuto. Schopenhauer avrebbe successivamente descritto il carattere illusorio dello spazio e del tempo battendosi proprio sul loro essere leggi mentali dell’intuizione sensibile, cioè modi soggettivi di organizzare l’esperienza. La ricerca di verità conclusiva che oltrepassasse i limiti dell’ordinaria intuizione spaziale e temporale  si sviluppo successivamente anche in matematica. Weierstrass, Dedekind, Cantor, Russell avrebbero insistito sull’attendibilità di astratti meccanismi mentali operanti al di fuori dello spazio e del tempo. Cartesio fu tra i primi a vedere l’infinito sotto angoli diversi che ne avrebbero fatto la storia. Nel 1630 , in una lettera, egli confutava a Mersenne un argomento assai diffuso circa l’inesistenza di insiemi infiniti. Mersenne esibiva la semplice constatazione che una eventuale linea infinita dovrebbe contenere infiniti piedi e anche infinite tese, che sono 6 volte più grandi di un piede.

 

 

L’insieme infinito di tese avrebbe dovuto allora contenere assurdamente come suo sottoinsieme proprio l’infinito insieme di piedi, pur coincidendo entrambi con la linea infinita. Come conclusione la linea infinita non può esistere in quanto, esistendo, dovrebbe coincidere con ciascuno dei due insiemi infiniti di cui uno più grande dell’altro. Cartesio accetto il paradosso, ma negò tale conclusione. Per lui il paradosso rivelava una caratteristica prevedibile di ogni insieme infinito: il rapporto tra una tesa ed un piede è un numero finito, il che rende a priori incompatibile l’osservazione di Mersenne con ciò che è invece attinente all’infinito e alle sue leggi. Le norme che regolano un’eventuale confrontabili tra insiemi infiniti non possono che trascendere del tutto ogni proporzione finita come quella che stabilisce il rapporto tra un piede e una tesa. L’obbiezione di Cartesio era profonda e coglieva uno dei nodi del problema che fu ripreso da Cauchy. Egli argomentava che se si assume come data l’intera serie dei numeri interi  n  si può benissimo costruire anche l’insieme dei suo quadrati  n^2  e l’insieme dei quadrati sarà paradossalmente contenuto in quello dei numeri dati. Questo esempio doveva dimostrare l’inconcepibilità dei numeri interi come totalità attuale, cioè come insieme attualmente infinito. Tornando  a Cartesio, egli non negava il paradosso, ma ne faceva una conseguenza immancabile dell’infinito. In verità Cartesio non avrebbe difeso l’esistenza dell’infinito in atto. L’elemento formale e limitante che pur doveva possedere un eventuale infinito in atto non può coincidere con l’analogo contenuto formale degli insiemi e dei numeri finiti : ne differisce anzi proprio perché si tratta di un <<infinito>> anziché di un <<finito>>. Nelle tesi di Cauchy era invece implicita l’idea che l’atto dovesse essere finito. Egli aveva ripetuto in sostanza  la semplice verità che non si possono contare tutti gli interi uno per uno fino ad arrivare ad un termine conclusivo, rivelando in tal modo di sentirsi costretto a pensare la raggiunta infinità in termini di totalità  finita, come se, invece di avere contato tutti i numeri, ne avesse contati dieci o cento.

 

Leibniz

 

L’altro aspetto dell’infinito di cui Cartesio anticipò l’intendimento e l’assimilazione era una variante di quello che fu chiamato a partire da Leibniz << principio di continuità>>. In una lettera Cartesio approvò l’idea di considerare un fascio di rette parallele come un caso particolare di un sistema di rette concorrenti in un unico punto. Se le rette sono parallele non c’è dubbio che è loro attribuibile una proprietà comune, che potrebbe attribuirsi come la loro direzione. Ma questa direzione può anche chiamarsi << punto all’infinito>> per chi contempli la fuga prospettica delle rette parallele che si allontanano indefinitamente in uno sfondo immaginario o reale. L’idea di chiamare con il nome di punto una direzione venne a Desargues proprio dalle ricerche sulla prospettiva: il raggio visuale che segue la comune direzione delle rette tende a fissarsi in un punto limite che appare l’ideale punto d’incontro delle linee rette. Ricollegandosi a Cassirer, Panosky scorse nella prospettiva una di quelle forme simboliche per mezzo delle quali un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile identificato con questo. E la preparazione di questo avvenimento ha radici lontane: mentre il mondo dei  Greci era discontinuo e svolgentesi in un antagonismo irriducibile dell’informità e resistenza passiva dello spazio di contro al delinearsi della forma, già la metafisica neoplatonica rivelava  una percezione dello spazio come << quantum>> continuo, come fluido omogeneo in crescente assonanza con le figure da esso emergenti. Il carattere infinito di questo spazio non poteva essere ignorato dai Greci, ma la rilevanza di quest’infinità per la rappresentazione figurativa era tutta nel carattere negativo e materiale dell’apeirsn . La apeirsn platonica era sinonimo di indeterminazione e sostanzialità, era ricettacolo delle forme,  condizione prima del loro crescere e diversificarsi; le sue caratteristiche erano quelle dell’infinità. Giorgio De Santillana avanzava l’ipotesi che la struttura ordinata del mondo trovasse la sua forma primigenia nella ciclicità del tempo e che fosse per l’appunto lo spazio in sé, nella sua indeterminatezza, il principio antagonista di ogni assurdità e incoerenza. In Platone lo spazio era considerato come Non-Essere. La prima frantumazione dell’unità cosmica legata dai cicli del tempo non avvenne con Copernico o Keplero e persino Galileo rimase dominato dalla ciclicità. Solo con Cartesio si ebbe questa rottura e lo spazio divenne allora il territorio più propizio per le esemplificazioni delle opposte concezioni dell’infinito. La razionalizzazione dello spazio ad opera di Cartesio trova l’ideale premessa in questa estensione infinita ove ha fatto irruzione l’essere positivo, l’affermazione di esistenza culminante nella visibilità di un punto ove appare racchiusa e unificata l’intera infinità dello spazio visivo. Leibniz formulò nel modo seguente l’idea che i punti all’infinito sono un’applicazione speciale del principio di continuità: << se la differenza tra due casi o configurazioni può diminuire al di sotto di ogni livello effettivamente assegnabili in dati concreti, allora è necessario che tale differenza possa trovarsi diminuita al di sotto di ogni quantità assegnata anche in quelle configurazioni che non possono esistere in concreto, ma solamente cercate e immaginate come risultato di una variazione continua. >> Se si immaginano due rette non parallele su un piano, esse si incontrano certamente in un punto. Ma facendo variare con continuità le loro direzioni fino a renderle parallele, il punto d’intersezione si allontana indefinitamente sul piano fino a sparire del tutto nel caso limite del parallelismo. Ciò che le rette hanno in comune in tutte le raffigurazioni intermedie deve allora in qualche modo essere presente anche nell’ultima conseguenza della variazione, rappresentata appunto dal parallelismo. L’ordine dei dati deve trasmettersi in un ordine analogo ravvisabile nel punto irraggiungibile cui essi sono orientati; punto che è in sé invisibile, ma indirettamente rivelato dall’unicità della direzione che definisce il parallelismo. La giustificazione dei punti all’infinito risiede anche nella loro << visibilità>>come configurazioni geometriche ordinarie. Tali deduzioni apparentemente ineccepibili sull’esistenza dell’infinito e sulla sua raggiungibilità per via di movimenti continui erano il risultato di un’idea dell’infinito pressoché opposta a quella che aveva ispirato Aristotele. Annota lo stesso Leibniz << il carattere dell’Autore infinito interviene ordinariamente nelle operazioni della natura ... Ogni porzione di materia può essere raffigurata a un giardino pieno di pesci. Ma ciascun ramo di una pianta, ciascun membro di un animale è ancor’esso un simile giardino, un simile stagno. E benché la terra e l’aria, intercettate tra le piante del giardino o l’acqua intercettata tra i pesci dello stagno, non siano né pianta né pesce, tuttavia ne contengono anch’esse, ma per lo più di tale piccolezza, da riuscire a noi impercettibile>>.

 

 

Leibniz prevedendo l’esistenza di diversi ordini di infinità e diversi gradi di differenziabilità, consentiva di configurarsi il reale, e gli infiniti in esso riscontrabili. La scienza va così per lui, a cercare la caratteristica dell’azione e del mutamento << nell’elemento momentaneo, nella forza tendente al cambiamento>>che è per Leibniz il principio stesso della realtà e la causa del suo funzionamento dinamico. Tali sollecitazioni infinitesime, suscettibili di un’esistenza ideale più che reale, non erano altre che differenziali. Leibniz concepì i suoi risultati con una sorta di esplorazione all’infinito dei concetti riferibili al calcolo di successioni finite; e questi stessi risultati, ponendosi come la meta finale di un percorso illimitato erano l’apparente dimostrazione dell’esistenza dell’infinito attuale. Leibniz continuò a parlare degli infinitesimali differenziali come delle finzioni utili all’arte dell’invenzione matematica non corrispondenti per necessità a cose attualmente esistenti al di fuori della mente.  Già Cartesio aveva offerto dell’infinito l’immagine di un’entità chiara e distinta, elencandone i paradossi come le naturali ed inevitabili caratteristiche di un’entità incompatibile con l’ordinaria percezione del limite. Solo con Leibniz l’infinito divenne tuttavia designato come semplice segno algebrico. Infatti lo scopo di Leibniz fu quello di dare alla geometria di Pascal, alla geometria degli indivisibili, la forma dell’analisi cartesiana.

 

 

Il principio degli indiscernibili. Le classi

 

Una perfetta immagine della follia di chi pretende di realizzare l’infinito attuale in concreto come descrizione analitica ed esauriente in un insieme di oggetti fu tratteggiata da Musil. Due locomotive che si scontrano sono presumibilmente guidate da macchinisti che non provocano apposta il disastro, ma che sono piuttosto ingannati dall’ignoranza di una serie di eventi che allo scontro risultano legati secondo diverse gradazioni di causalità. In questa mostruosa serie di eventi, noi tutti perdiamo la forza della coscienza poiché se avessimo la forza di riesaminarci e di riconsiderare il nostro compito, faremmo tutto il necessario ed eviteremmo l’infortunio.  La folle aspirazione di conoscere l’intera complessità di un evento si potrebbe raggiungere solo al prezzo della più completa informità ed apatia, paragonabile solo alla all’indifferenza reciproca delle particelle nel caos primogenito descritto da Anassagora o da Anassimandro. Lo stesso pensare, la stessa coscienza raffinata, in quanto coordinatrice di fatti lontani e irripetibili, è suscettibile di procurare come frutto immediato l’inerzia e l’apatia, lo stare inattivo e cosciente a braccia conserte in un guazzabuglio di dubbi, tormenti, agitazioni e sensazioni confuse. Un essere determinato e finito, scrisse Hegel, è in rapporto col mondo intero che lo circonda; sicché la descrizione completa di un qualsiasi oggetto è autocontraddittoria. A.N. Whitehead descrisse la correlazione tra finito ed infinito in termini di complessità di un evento, lasciando intendere che non si può mai esaurire del tutto l’elenco dei collegamenti che vincolano  necessariamente una qualsiasi entità alla totalità  che la contiene. L’incolmabilità delle esperienze collegabili ad un oggetto, che fanno di questo un punto limite non perfettamente calcolabile, colmo di sfumature e di aspetti non sempre riconoscibili, fa sì che qualsiasi pretesa di incidenza sulla realtà mediante azioni  ed interventi concreti  sia di fatto vana, o perlomeno imprecisa e gravida di rischi. Ciò potrebbe anche essere un rapporto con la matematica, visto che spesso l’archetipo dei movimenti dello spirito e i problemi in essa dibattuti potrebbero trovare una sorprendente corrispondenza con i fatti della vita. È noto come Leibniz non cesso mai di legare le sue invenzioni matematiche al linguaggio con cui descrisse la sua intuizione del mondo. In svariati modi, egli, collegò sempre le anime con i punti matematici e per illustrare la struttura del reale usò immagini geometriche in cui il principio di continuità fosse una legge operante. Per lo meno entro i limiti dell’analogia il reale fu allora assimilato al continuo matematico e l’esistenza contingente, con la sua infinita complessità, paragonata all’insondabile irrazionalità dei punti dello spazio geometrico continuo. Conformemente all’idea intuitiva di continuità geometrica la natura << non fa salti >> e, nel vuoto apparente tra due distinte sostanze, prevede l’esistenza possibile di un’infinità di altre sostanze intermedie, diverse tra loro per gradi infinitesimi. Tutte le sostanze create furono così messe in una serie continua in cui le realtà necessarie e quelle contingenti fossero nello stesso rapporto dei numeri irrazionali. La riducibilità dei razionali ad una comune unità di misura era paragonabile alla possibilità di determinare l’analisi delle verità necessarie nelle verità identiche; l’infinità degli irrazionali era invece avvicinabile all’analisi del contingente che è fatalmente illimitata e senza soluzione: solo Dio può conoscere e portare a termine la completa spiegazione delle cause di un evento. Se è vero che il continuo, come sostiene Whitehead, fornisce la principale  modalità di rappresentazione della potenzialità indefinita, non si andrebbe lontani dalla verità configurandosi il mondo di Liebniz come dominato dall’illimitato, anche nel senso relativamente preciso che in esso risulta assente, come è pure assente nel corrispondente apparato matematico, l’idea del limite come elemento dominante un’infinità potenziale e situato al di fuori di quest’ultima. La realtà contingente è tuttora costituita, in questa prospettiva, di punti raggiungibili per variazioni continue attraverso una problematica infinità attuale di condizioni intermedie e di percorsi infinitesimali dall’una all’altra. Solo Dio è all’esterno del mondo, trascendendo la serie illimitata delle monadi. In tal senso si può ben dire che il carattere rivoluzionario della matematica degli infinitesimi fu per lo meno analogo a quello di una concezione del mondo ispirata a quell’idea di infinito che Aristotele aveva respinto. Un aspetto non riducibile all’illimitato sopravvive in questa visione: la diversità. Due punti qualsiasi della serie continua, se distinti, differiscono per qualche predicato che riveli la loro dissomiglianza, mentre due punti che abbiano gli stessi predicati, e siano perciò in tal senso indiscernibili, sono lo stesso punto.

 

 

Con il principio degli indiscernibili Liebniz negò diritto d’esistenza alla duplicazione, al confronto speculare di due oggetti identici e distinti; circostanza che da sola paralizzerebbe il mondo, perché ogni movimento e ogni scelta sarebbero allora assurdi e contraddittori. Ma la formulazione del principio deve essere correlata dalla comprensione che ogni qualvolta si parla di identità  e si asserisce al concetto in questione si rischia di coinvolgere entità inesistenti, o di cadere inconsapevoli  nella circolarità dei paradossi logici o semantici. Russell rivelò l’ambiguità e la contraddizione degli argomenti di Liebniz, dimostrando che solo i metodi della logica matematica erano adatti a riformulare correttamente il principio degli indiscernibili. L’indagine logico-matematica raffinò in ogni caso la penetrazione dell’idea di infinito, non cessando d’altronde di indicare aspetti  e sfumature non troppo dissimili a quelle di concezioni assai più antiche. La teoria logica dei tipi, formulata per la prima volta da Russell, fu un rimedio all’ingenua concezione di <<collezione>> e ai paradossi che questa implicava. Quine osservò che la principale finalità dei ‘’ Principia ‘’, introdotti da Russell, fu di assottigliare l’universo delle classi a un punto di coerenza logica; e ciò avvenne con il sussidio di una gerarchia di tipo logico che impedisse troppo estesi raggruppamenti istantanei di oggetti. Russell scopri ad esempio che non è possibile considerare la totalità simultanea di un gruppo di individui assieme ai loto attributi e relazioni, agli attributi e relazioni di tali attributi e relazioni, e così indefinitamente. Questo <<indefinitamente>> è destinato a porsi in un crescente divenire di complessità, sì da ordinare l’universo in classi successive di significati logici percorrenti una gerarchia ben definita. Fra le classi inesistenti ce né una che riguarda direttamente il principio degli indiscernibili e l’impossibilità di indicare correttamente tutte  le infinite interrogazioni di un individuo con le cose dell’universo circostante. Naturalmente la drastica diminuzione operata dai ‘’ Principia ‘’ delle formule linguistiche compatibili non incontro un’universale e definitiva approvazione. Naturalmente la soppressione delle classi non toccò il fondo del problema e Russell dovette  fare appello ad altre entità universali attirandosi le critiche di Quine che considerò oziosa questa sorta di riduzione. Nei successivi sistemi di Zermelo e di Neumann, la differenza per l’idea di classe apparve in maniera più sfumata. Le successive ispezioni dell’idea di classe o di raggruppamento che si avvicendarono nel’ 900 suggeriscono come eventuali problemi di compatibilità fossero da riportare sul terreno semantico, e richiedessero perciò un attento esame dell’uso della lingua.

 

 

L’infinito attuale. Indefinito e transfinito

 

In che modo si formò col tempo la più recente convinzione che l’infinito possa esistere come totalità attuale? Un elenco dei precursori sarebbe interminabile; più recentemente in una descrizione dell’infinito contenuta nella XII Lettera di Spinoza, e nel successivo commento della ‘Scienza della logica’ di Hegel, si troverebbe la più compiuta espressione di una possibile alternativa all’illimitato inteso come pura potenza. L’esposizione di Spinoza e di Hegel già affermano quell’esigenza di staticità che deve soddisfare l’infinito per cessare d’esistere come puro sinonimo del divenire temporale. Forse Leibniz, pur credendo nell’infinito attuale, non aveva altrettanto insistito su questo punto. È pur vero che l’infinito potenziale trova nella serie una naturale conclusione nel finito e quindi in qualcosa di fermo e statico; ma l’insistenza di Leibniz è tutta sul movimento: il differenziale, non altro che il movimento infinitesimale di ogni divenire, e il finito è l’atto finale di una generazione finale dominata dal tempo. Per rintracciare poi un’idea dell’infinito suscettibile di tramutarsi in nozione mentale accessibile e adatta a ricevere un nome o una designazione simbolica come ogni altra cosa di questo mondo, non è inutile risalire a Cartesio. Già Cartesio aveva asserito che la concezione dell’infinito non è dissimile a quella di una figura finita: alla stesso modo che una figura composta da tre linee genera l’idea del triangolo, così è sufficiente concepire una cosa che non è rinserrata da alcun limite per possedere un’idea di infinito. In realtà Cartesio non arriva ad ammettere la possibilità di comprendere tutto l’infinito; piuttosto questa impossibilità doveva appartenere alla ragione formale dell’infinito ed essere implicita nella verità dell’idea stessa. Con ciò Cartesio aveva comunque proposto un infinito garantito da un legittimo contenuto di obbiettività pur non ritenendolo riferibile ad alcuna cosa concreta. Queste osservazioni erano in realtà l’avvenimento che anche l’infinito poteva diventare l’oggetto di una invenzione meccanica, il segno illimitatamente riproducibile di un’arte che Leibniz avrebbe definito praticabile senza lo sforzo dell’immaginazione. Nel corso del XVIII secolo i discepoli di Leibniz ebbero il compito di espandere e di consolidare il disegno iniziale della dottrina leibniziana. Nonostante le cautele di Leibniz che aveva conservato il titolo di finzioni ai differenziali, Fontenelle scriveva nel 1727, che gli infiniti e gli infinitesimi dovevano ormai considerarsi un fatto stabilito per sempre, un’acquisizione scontata delle speculazioni della geometria. Restava immutata la concessione cartesiana dell’inesistenza dell’illimitato come totalità riscontrabile nel reale. Le interminabili discussioni che si svolsero nel’700 sui fondamenti metafisici del differenziale e del principio di continuità non alterarono in ogni caso la convinzione che una plausibile idea dell’infinito dovesse in qualche modo affermarsi e consolidarsi nel linguaggio matematico. Non stupisce perciò di trovare infine la convinzione dell’esistenza dell’infinito come realtà intellettuale. Nella prima metà dell’800 B. Bolzano aggiunse conclusioni non troppo dissimili a quelle di Cartesio, ma aggiungendo che le idee non sono in generale qualcosa di  <<esistente>>, ma semplicemente qualcosa che non cessa di sussistere anche quando non sono pensate da nessuno. Egli concluse che la determinazione di una cosa qualsiasi non dovesse poggiare necessariamente sull’effettiva esistenza di un oggetto, e l’infinito non poteva fare eccezione. Ma Bolzano non si accontentò di riconoscere nell’idea di infinito un’oggettività correttamente determinabile. Non diversamente da Leibniz egli vide l’infinito ovunque operante nella realtà; collegò l’infinità di Dio all’infinità degli esseri creati e all’infinità delle esperienze collegate. Una decisiva innovazione di Bolzano, che superò in questo persino Cantor, fu l’abbozzo di una logica delle proposizioni capace di ridimensionare i problemi dell’esistenza: un’anticipazione di Russell e di Quine. Bolzano fa chiaramente intendere di voler distinguere tra diversi tipi di proposizioni esistenziale e dimostra che non è assurdo pensare al contenuto referenziale di un’idea in rapporto ad un esistente. Basti pensare che l’idea di proposizione può riferirsi a oggetti come il teorema di Pitagora. La verità di simili proposizioni non è nel loro riferirsi a oggetti concreti che si comportano in realtà come esseri descrivono. Per quanto Bolzano insistesse nell’inserire l’infinito tra le cose reali, egli preparò il terreno all’avvento di un uso innocuo del verbo essere in riferimento agli universali e alle finzioni. Egli neutralizzò la potenza evocatrice del segno, prospettando la sua riducibilità a fiche manovrabile nello spirito del più radicale nominalismo. L’infinito avrebbe potuto in tal modo apparire nel linguaggio senza troppe compromissioni.

 

 

L’innovazione di Bolzano ben si potrebbe definire un esorcismo contro gli spettri chiamati dal simbolo, una specie di lubrificazione del pensiero logico operata con la soppressione di alcune delle componenti invisibili della proporzione o dell’idea. L’esistenza   ‘reale’ delle proposizioni e delle idee fu da Bolzano drasticamente ridotta al loro eventuale apparire in qualche punto dello spazio-tempo al loro essere pensate o pronunciate da qualcuno in un determinato istante, senza alcun riguardo alla possibilità di materializzarsi in quell’istante. La sfera del magico, che da Novalis era stata rivendicata perfino ai segni della matematica, rimase d’allora tacitamente occultata. Lo stesso Novalis aveva scritto che all’invisibile, ancor più che al visibile, l’uomo è strettamente legato. Il gesto riduttivo di Bolzano si potrebbe anche spiegare citando le sue speculazioni sul concetto di verità. Per evitare fraintendimenti egli spiega che il verbo essere che si usa parlando di verità in sé ha un senso del tutto convenzionale; esso va separato dall’idea di attualità di presenza operativa e condizionante i fatti della vita. Le verità della religione, della morale della matematica e della metafisica sono solo proposizioni da considerarsi in prima istanza come cose in sé, distinte dal fatto che descrivono, che per lo più non esiste. Inoltre Bolzano avanzò la proposta che una classe di oggetti fosse definibile come tale a prescindere dal suo essere finita o infinita. Egli anticipò Cantor nel ritenere che all’idea di insieme toccasse una verifica di coerenza mediante il principio aristotelico del terzo escluso. (Una cosa è determinata o determinabile se di due attributi contraddittori (A e non A) uno solo appartiene ad essa). Come più tardi Cantor, Bolzano affidò la sua fede nell’esistenza dell’infinito attuale alla convinzione che l’atto mentale capace di riunire in una superiore unità oggetti separati e distinti fosse così al riparo da contraddizioni logiche. I fatti avrebbero smentito più in là questa convinzione. In ogni caso le idee di Bolzano precorsero di qualche decennio un intero periodo dell’800 che fu caratterizzato dall’invenzione di un linguaggio matematico che dell’infinito intese formare una totalità attuale e statica, non governata dal divenire temporale. Questo fu il linguaggio della teoria degli insiemi, che intese giustificare, accanto all’infinito potenziale o sincategorematico delle successioni infinite, l’infinità attuale di tutti i sottoinsiemi come collezione chiusa di oggetti esistenti di per sé stessi. Bolzano anticipò questo sviluppo dimostrando che gli aggregati si formano mediante operazioni sintetiche del pensiero al di fuori del tempo. Il metodo di Weierstrass riflette la stessa esigenza di staticità. Fu ancora Weierstrass affondare per la prima volta una teoria dei numeri irrazionali sulla nozione di insieme, estendendo operazioni e relazioni di grandezza ad aggregati infiniti di numeri razionali: l’infinità potenziale dello sviluppo di cifre e dei numeri irrazionali era rinserrata in un’entità governata da leggi indipendenti da ogni idea di successione temporale. Cantor avrebbe in seguito toccato in modo esplicito il punto essenziale: era l’idea di tempo ad essere principalmente coinvolta in questa prospettiva. La convinzione che l’apriorismo kantiano fosse inattaccabile per lo meno nell’idea del tempo ricevette nel modo più esplicito una smentita. Così a proposito del rapporto tra continuità e tempo, Cantor stabilì la netta priorità dell’idea del continuo. E.Cassirer osservò come la matematica dell’800 vide un progressivo offuscarsi del valore cognitivo delle forme dell’intuizione sensibile. Insieme a Cantor anche Dedekind, Russell, Frege e Hilbert cercarono di ridurre i fondamenti del numero a costanti logiche o relazioni primarie autonome del pensiero. << La serie dei numeri >> scrisse Cassirer << non deve essere costituita sull’intuizione dello spazio e del tempo, ma invece il concetto di numero ci deve mettere per la prima volta in grado di acquisire concetti davvero rigorosi ed esatti di ciò che è spaziale e temporale >>.

La vera svolta arrivò comunque, alla fine dell’800, con la teoria degli insiemi di Cantor, ma alcuni fatti matematici la anticiparono riproducendo molto da vicino i meccanismi di generazione di numeri transfiniti e degli insiemi di potenza superiore al numerabile. Solo nel 1833 Cantor poteva affermare che i tempi erano maturi per l’introduzione di una nuova specie di infinito. Questo era già apparso di fatto nella geometria e nella teoria delle funzioni. Lo studio delle funzioni analitiche di una variabile complessa prevedeva l’esame di punti sul piano, ad una distanza infinita dall’origine, nel cui intorno la funzione presentava proprietà analoghe a quelle negli intorni di punti al finito. L’indagine sulla struttura degli intervalli di convergenza delle serie trigonometriche portava a considerare sistemi di punti cui venisse applicata un numero infinito di volte l’operazione di derivazione. Ciò era sufficiente per concludere che accanto all’infinito potenziale di Aristotele e San Tommaso era concepibile e legittimo un infinito attuale .

 

 

Le antinomie

 

Dopo Cantor ci fu chi si preoccupò di ricapitolare le prove e le giustificazioni dell’uso matematico dell’infinito attuale. La nota più insistente era l’appello all’indipendenza della notazione di numeri dal supporto intuitivo ed empirico dell’ordinario processo del contare; la fondazione del numero su di un  piano puramente logico; l’indipendenza di ogni definizione matematica da qualsiasi esigenza di riscontro nel mondo dell’apparenza sensibile. L’idea era che il sistema della matematica dovesse trovare il suo più vero compimento nell’ambito di un’elaborazione autonoma di concetti pensati a priori: ogni giustificazione era da ricercarsi nell’interna necessità di leggi operanti in una costruzione puramente matematica. La natura dei principi che governarono la matematica cantoriana e post-cantoriana, avvallando l’estensione del numero al transfinito, non si discostò troppo dalle ragioni invocate ad esempio da Gauss, prima di Cantor, per un ampliamento del numero che comprendesse l’immaginario; ragioni governate dalla tacita premessa che l’eventuale acquisizione di nuovi concetti fosse brevemente giustificabile con lo stesso giro di frase pronunciato all’indirizzo del giovane Tòrless dal suo insegnante di matematica, proprio intorno al senso dei numeri immaginari: << Lei deve accettare il fatto che tali concetti matematici non sono né più né meno che concetti alla natura del pensiero puramente matematico >>. Cantor aveva ricordato che l’uso dell’infinito nella geometria era tale da consentire ormai l’introduzione dell’infinito <<proprio>>, cioè dell’infinito attuale, accanto a quello sincategorematico di san Tommaso. L. Couturat insistette sull’intima analogia tra infinito geometrico e i numeri immaginari. Il principio di continuità di Poncelet, che era un’estensione dell’analogo principio di Liebniz, sottostava a tale genere di deduzione. Ma volendo centrare uno dei motivi portanti dell’estensione aritmetica al transfinito si dovrebbe insistere sulla trasformazione dell’idea di numero, trasformazione non priva in ogni caso di richiami all’antico. Couturat commentò il lavoro di Cantor ricordando che uno dei suoi meriti era consistito nell’aver esaltato il carattere unitario e <<organico>> del numero intero: l’unità, e non solo l’elemento costitutivo del numero e della sua molteplicità, bensì anche il nodo conclusivo che ne sancisce l’aspetto di totalità. Il numero è essenzialmente cardinalità, cioè classe di classi in corrispondenza biunivoca tra loro, e tale astrazione non ha bisogno, per sussistere, di una speciale enumerazione; l’enumerazione non è che <<conoscenza esplicita di un numero già pensato e implicitamente già pensato>>; il numero non è il risultato del contare, ma ne è la condizione. La conseguenza è che per formare l’idea di numero non è indispensabile conoscere la molteplicità come divenire temporale e l’Aritmetica, non può essere, come voleva Kant, una scienza del tempo. Couturat proseguì le tesi di Cantor facendo del numero un’entità formale completamente definita a priori, vuota di ogni contenuto materiale e concreto. Analoghi tentativi sorpassarono la soglia del secolo per approdare alle prime dimostrazioni  del teorema del buon ordinamento proposte da Zermelo nel 1904 e nel 1908. Zermelo riuscì a dimostrare che in ogni insieme M, e in particolare in ogni insieme infinito, è definibile ciò che si chiama buon ordinamento, cioè una relazione d’ordine, che si potrebbe immaginare per semplicità analoga al <<maggiore>> e al <<minore>> dei numeri, caratterizzata dalla seguente proprietà: ciascuno dei sottoinsiemi non vuoti dell’insieme dato M ha un elemento più piccolo di tutti gli altri, ed in particolare per ogni coppia di elementi di M, a e b, si può dire qual è il <<maggiore>> e qual è il <<minore>> dei due. Più esattamente, egli seppe dimostrare che un insieme M può essere bene ordinato tutte le volte che si ammette l’esistenza attuale di una funzione che ad ogni sottoinsieme M’ di M associa un particolare elemento m’ di  M’.  Questa  funzione di scelta, se pensata esistente, trasformava la potenzialità inesauribile dell’operazione di ordinamento in una realtà statica e totale. Il metodo intuitivo di ordinamento doveva consistere in una sorta di conteggio degli elementi da ordinare, in successione temporale, sulla base di una estensione dell’ordinario procedimento del contare al transfinito. L’ipotesi di esistenza della funzione di scelta di Zermelo era tale da rompere i vincoli della successione temporale delle scelte, rendendo simultaneo ciò che il tempo costringeva ad essere successivo. I risultati di Zermelo consentivano di estendere l’applicabilità del principio di induzione, ed in particolare dell’induzione transfinita, a un numero di casi ben maggiori del previsto.

 

 

Le classi di insiemi infiniti equivalenti che Cantor prudentemente chiamava <<potenze>>, per evitare una troppo precipitosa applicazione dell’idea di numero a tali astrazioni, potevano assurgere più ragionevolmente  a <<numeri>> qualora fosse stata provata nel modo più generale la loro confrontabilità, al pari dei numeri ordinari finiti. Tale confrontabilità era assicurata dal teorema di buon ordinamento di Zermelo. Le invenzioni matematiche di Cantor non rimasero comunque  immuni dalle critiche. Kronecker capeggiò fino alla morte l’opposizione ad ogni tentativo di fondazione dell’infinito attuale, giudicando le innovazioni di Cantor sataniche. Egli seguì di fatto la via opposta che condusse alle principali innovazioni sull’infinito. Kronecker aspirava alla costituzione di una scienza aritmetica estensibile fino all’inclusione dell’algebra e dell’analisi, ma separata nettamente dalla geometria e dalla meccanica. In tal caso egli auspicava una <<aritmetizzazione>> fondata sul numero inteso nel senso più ristretto possibile, con la conseguenza che gli stessi numeri negativi, frazionari ed algebrici dovevano rapportarsi a particolari espressioni definibili con gli interi e con le funzioni di indeterminate introdotte da Gauss. L’ ’esistenza’ dei numeri algebrici doveva prospettarsi come il mero riconoscimento di intervalli in cui il poligono cambiasse di segno e quindi, sempre evitando mediante indeterminate e congruenze i numeri frazionari, ci si poteva anche in tal caso ricondurre ai soli numeri interi. Anche l’ausilio della logica, era per Kronecker, da considerarsi estranea alla pura matematica: l’evidenza logica di un ragionamento non garantisce la legittimità di una sua utilizzazione; non è sufficiente, per dimostrare un teorema, provare che la negazione del suo enunciato implichi una contraddizione, e generale è solo un effettivo procedimento fondato su un numero finito di operazioni aritmetiche a condurre a un risultato sicuro. Quanto basta per scongiurare il pericolo delle antinomie, e per delineare uno stile di indagine che sarebbe stato poi quello degli intuizionisti. Chi negò dopo Cantor l’esistenza dell’infinito attuale proposta dal nuovo linguaggio insiemistico si trovò per lo più a dover confutare anche ciò che Cantor aveva ispirato : le tesi logistiche di Russell e Whitehead.  Infatti dalle tesi di Russell si sarebbe dovuto dedurre un certo carattere di rigore incontrovertibile di alcuni risultati di Cantor. Al di fuori della matematica è stato da sempre più facile guardarsi dalla tentazione di scorgere in una qualsiasi formula linguistica la riproduzione verbale di una verità. Una qualsiasi asserzione ha un valore relativo, aveva scritto N. Cusano, ed è suscettibile di venire confutata. Basti pensare alla dialettica di Zenone o a quella platonica, ove due ingredienti essenziali, contraddizione e l’analogia, sono usati per uscire <<dal punto di vista>>, dalla conferma di alcunché intenda rigidamente proporsi come giudizio singolo e separato.  Una singolare suggestione fa spesso ritenere che la matematica possa ritenersi uno strumento particolarmente privilegiato per l’indagine di alcuni concetti, fino al punto di offrire definizioni << assolute >> e soluzioni definitive. La fedeltà di quest’atto di fede, non è sempre apparsa, però, immune da sospetti. Wittgenstein parlò dell’infinito di Cantor in termini tali da non incoraggiare coloro che ritenessero ormai l’infinito attuale come un fatto scontato. Wittgenstein scrisse che i risultati scientifici accreditano facilmente asserzioni che vedono il risultato scientifico come inconfutabile realtà, ma ciò non è giusto, poiché essi hanno come unico effetto quello di persuadere a trascurare alcune differenze tra gli oggetti di cui si vuole stabilire l’identità. La scoperta delle antinomie fu un motivo scatenante di dubbi e ripensamenti anche nell’ambito matematico e che si sviluppo un po’ ovunque, in ogni campo. Altre testimonianze sull’ambiguità di ogni appello alla ragione scientifica come espediente retorico del convincimento vennero da persone estranee all’esercizio matematico.  T.W. Adorno avvertì l’intrinseca incongruenza di una qualsiasi asserzione filosofica che implicasse in qualche modo il gesto della persuasione, con un’intenzione non troppo distante da quella che anticamente caratterizzò la dialettica, Adorno suggerì che compito di quest’ultima altro non fosse che quello di eliminare dal discorso la << fissazione maniacale>> di chiunque volesse far atto di persuasione  del suo univoco e particolare punto di vista. A sostegno di chi confutava la posizione logistica e la fondazione dell’infinito attuale mediante il linguaggio insiemistico ricomparvero le antiche tesi platoniche sui rapporti tra <<intellezione>>  delle verità scientifiche e linguaggio elaborato per descriverle.  Matematici come Poincarè e Weyl ristabilirono quei contatti con quella filosofia che neanche Russell si sentì di liquidare. In loro ricomparve, oltre il puro scheletro del metodo scientifico, una sorta di coscienza filosofica, di capacità contemplativa e di densità di intuizione quali si è usi ascrivere, di solito, al pensiero tradizionale. Prima del perfezionamento delle tesi intuizioniste comparvero sulla scena matematici come Lebesgue, Baire, Borel, che già formularono, sin dal 1905, obiezioni all’idea di infinito attuale, al transfinito e all’uso dell’assioma di Zermelo.

 

 

Alle questioni di principio sull’attendibilità dei nuovi concetti, si aggiunsero necessità di correlazione di alcune lacune nell’apparato logico deduttivo dei Principia, come ad esempio la definibilità dei limiti superiori e di quelli inferiori negli insiemi di numeri reali. Hilbert si propose di salvare dalle antinomie l’integrità della matematica ricorrendo al metodo assiomatico  e al calcolo logico, ma rimase egli stesso convinto che l’uso della deduzione logica dovesse ammettere un’ulteriore condizione extralogica, intuibile come esperienza immediata ed anteriore ad ogni attività del pensiero. Ciò lo riavvicinò a Kant inducendolo a pensare che i programmi di Russell non avrebbero raggiunto il loro scopo. In accordo con Brouwer egli pure ammise che i poteri del pensiero intuitivo non giungono al transfinito  e che perciò i teoremi matematici implicanti questa teoria  risultano ingiustificabili come eventuali verità dotate di concreta esistenza. Il suo programma prevedeva una comprensione dell’uso del transfinito da un punto di vista ‘finitista’, ovvero da un punto di vista più ristretto. Il tentativo di cogliere l’infinito nella sua totalità definendolo una completezza che nulla lasciasse fuori di sé era destinato a dimostrarsi illusorio. Nel 1931 Gòdel dimostrò che la matematica non cessava di mostrare delle aperture, delle allusioni ad altro da ciò che essa sarebbe in ogni caso riuscita ad esprimere in un sistema formale. La matematica simbolica non era in grado di  esprimere, come avrebbe auspicato il formalismo, un mondo chiuso ed esauriente di segni, un sistema formale completo. Per qualsiasi sistema formale della matematica Gòdel indicò due inevitabili conseguenze :

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  1. esistono proposizioni relativamente elementari e intuitivamente vere che non possono essere dedotte nel formalismo del sistema;

  2. l’asserzione che esprime la coerenza del sistema non è essa stessa deducibile nel suo formalismo,

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nel senso che un tentativo di deduzione porterebbe all’assurdità di una relazione come 1<>1.

L’instabile incompletezza che ciò determinava rivelava come il fatto più semplice e chiaro per l’attitudine creativa della mente fosse viziato da intrinseche oscurità e deficienze qualora fosse completato dall’angolo visuale del metodo assiomatico di Hilbert. La successiva dimostrazione di G. Gentzen della coerenza dell’aritmetica risultava non conforme al programma hilberiano e implicava una fatale penetrazione nel transfinito. Ma l’aspetto più interessante della questione riguardava l’idea ispiratrice delle tecniche dimostrative di Gòdel. La sua dimostrazione poteva ben considerarsi un geniale contributo all’arte del paradosso, rilevando il valore incomparabile dell’impossibilità, dell’ostacolo, come veicolo per la comprensione dell’assenza, in questo mondo, dell’infinito come totalità. L’intuizione greca sul significato di questa assenza, sull’assurdità di un’esplicita relazione dell’infinito nei ranghi dell’ordinaria apparenza, sia per quella legata ad una rappresentazione matematica, trovò infine nell’esito di alcuni teoremi un’evidente conferma. Altri risultati come il paradosso di Skolem, la conseguente relativazione del concetto di classe e il riconoscimento dell’insanabile imprecisione dello strumento assiomatico: la rifondazione della semantica con la proposta di una distinzione tra linguaggio-oggetto e linguaggi-metafisico nei ranghi di un’indefinita gerarchia, erano altrettanto conferme della nuova visuale introdotta da Gòdel. H. Weyl scrisse che l’infinito è accessibile intuitivamente come campo di possibilità indefinitamente aperto; ed in ciò appare uguale alla successione dei numeri che è prolungabile illimitatamente. La completezza, il così detto infinito attuale, è tuttavia al di fuori della nostra portata. Ciò nonostante l’esigenza della totalità spinge la mente a rappresentarsi l’infinito come entità chiusa per tramite di costituzioni simboliche. L’interesse filosofico della matematica e della fisica doveva  consistere, per Weyl, nel raggiungimento di una intrinseca solidità di queste costruzioni simboliche e il lavoro di Weierstrass, Cantor, Frege, Russell e Hilbert era anche servito a questo.

L’infinito aperto 

 

Pur nella sua dichiarata antipatia per la dialettica hegeliana Popper pose come criterio di definizione essenziale di una teoria scientifica un concetto negativo come quello di falsificabilità. Una teoria si definisce scientifica se è confutabile; ed è allora evidente che nell’attimo di una sua eventuale confutazione si toccherebbe, come egli stesso si esprime, << la realtà>>, e si raggiungerebbe quindi il terzo, e più completo, degli stadi di penetrazione della teoria ( il primo è lo stadio in cui si afferma il senso generale, il secondo è lo stadio in cui si è in grado di ripeterlo e trasmetterlo, il terzo è quello in cui la teoria potrebbe essere confutata). Pur con intenti affatto dissimili Hegel aveva posto come elemento essenziale del finito, esemplificabile in tal caso in una qualsiasi teoria scientifica coerente, il momento della sua negatività, del suo non essere: <<quando delle cose diciamo che son finite, con ciò si intende che la loro natura, il loro essere è costituito dal non essere >>; ed è proprio questo non essere, a rivelare la presenza dell’infinito nel mondo. <<Se .....si prende la realtà nella sua determinatezza, >> scrive Hegel <<allora, poiché essa contiene essenzialmente il momento del negativo, la somma di tutte le realtà diventa una somma di tutte le reazioni, la somma cioè di tutte le contraddizioni, e anzitutto, in certa guisa, la potenza assoluta, nella quale ogni determinato è assorbito. Ma, siccome questa stessa potenza non è se non in quanto ha ancora di contro a sé qualcosa che essa non ha tolto, così quando si pensi come allargata in una potenza compiuta, illimitata, essa diventa l’astratto nulla. Quel reale in ogni reale, l’essere in  ogni esistere, in cui si dovrebbe aver l’espressione del concetto di Dio, non è altro che l’astratto essere, quello stesso che è nullo>>. Questo tentativo, che è di Hegel , di cogliere la negatività di cui si riveste l’infinito nel suo contatto col mondo, lo si può riscoprire negli interstizi di  molte fra quelle teorie della conoscenza a cui  la dialettica hegeliana poteva sembrare uno schema inutilmente costruttivo. Se si considera ad esempio l’opera di  Lakatos non mancano esempi capaci di far apprezzare una delle più profonde intenzioni hegeliane, quella cioè di unificare, nei fatti e nelle cose del mondo, le due facce apparentemente più inconciliabili dell’infinito: la pura affermazione e la pura negazione. L’intento di Lakatos è di togliere dalla dimostrazione matematica la sua apparente unidirezionalità. Si potrebbe anche aggiungere, che si tratta in tal caso di un affrancamento del procedimento  dimostrativo del desiderio, cioè della pretesa illusoria di trovare  ciò che si cerca. A chi ha fretta di arrivare a una conclusione si risponde: <<a voi interessano soltanto le dimostrazioni che ‘ dimostrino’ ciò che per mezzo di esse intendete dimostrare. A me interessano le dimostrazioni anche se esse non ottengono lo scopo per cui erano intese. Colombo non raggiunse l’India, ma scoprì qualcosa di piuttosto interessante>>. Ciò che accompagna il ricercatore, in questa fase, è allora una sorta di parvenza del vuoto, che si potrebbe anche definire, in tono consolatorio come il rigetto d’ogni  idolatria scientifica. Naturalmente il vuoto può popolarsi di eccezioni contro esempi , deformazioni concettuali ecc. e dare luogo alla convinzione che << se vogliamo imparare qualcosa di veramente profondo, dobbiamo studiarlo non nella sua forma ‘normale’, regolare, consueta, ma nel suo stato critico, in un momento di febbre di passione>>; da cui l’estremo e ambiguo consiglio: <<  se volete conoscere il corpo normale, in salute, studiatelo quando è anormale, quando è malato>>. Questo percorso dell’irregolarità, in una accettazione incondizionata ma vigilante dell’apertura incolmabile suscitata dall’insorgere di un problema, è precisamente quel momento negativo che neppure i limiti di una definizione o di una dimostrazione matematica sono in grado di illuminare. Lakatos toglie del resto alla dimostrazione il suo apparente carattere di infinità, quand’essa intenda configurarsi quale prova d’una ‘verità’ conclusiva. Questo può anche significare che un certo periodo del ‘ 900 il recupero dell’infinità come pura potenza fu agevolato dalla crescita di una critica radicale dell’atto di persuasione, coinvolgente lo stesso carattere apodittico della dimostrazione matematica. Il ‘ gesto’ che Adorno ( oltre che Wittgenstein) seppe mascherare con argomenti decisivi  riguadagnò l’antica ambivalenza  nel duplice significato di <<convincere >> e <<ingannare>> o <<deludere>>. In senso lato si poteva anche dare ragione a Husserl , il quale lasciava intendere come una matematica ideale manovrata da un metodo onnicomprensivo avesse l’irresistibile tendenza, a partire da Galileo e Cartesio, a tramutarsi in tecnica reificante, procedimento descrittivo affatto separato dal mondo della soggettività, e sfociante quindi nella alienazione e nel fallimento. Se è vero, come scrive N. Wiener , che il pensiero di ogni epoca si riflette nella sua tecnica , si potrebbe anche scorgere che in taluni aspetti del pensiero di Heidegger  una stretta relazione della crisi dei fondamenti della matematica.

 

La scoperta della antinomie svolge un ruolo implicatamente rilevante ed egli scrive che <<il livello di una scienza si misura nell’ampiezza entro cui è capace di ospitare la crisi dei suoi concetti fondamentali>>.  Non solo, ma ciò, mette a nudo quell’ambito di idee che stanno a fondamento della scienza come ricerca positiva; e così, ogni ulteriore indagine è automaticamente costretta a porsi il problema dell’essere delle cose; proprio quell’essere, che Bolzano aveva voluto escludere dal linguaggio scientifico. L’estrema conseguenza di questa volontà di dominio doveva essere l’affacciarsi dell’incolmabile, e quindi, nella matematica, dell’antinomia. L’incalcolabile diventava allora un offuscamento degli idoli che si distendono su tutte le cose da quando l’uomo è divenuto soggetto e il mondo immagine. Tuttavia l’idolatria, come notava S. Weil è una necessità vitale poiché anche tra i migliori, è inevitabile che essa limiti strettamente l’intelligenza e la bontà. E’ facile che non si resista a lungo all’orrore del vuoto: il vuoto è la pienezza suprema ma l’uomo non ha il diritto di saperlo. Heidegger colse evidentemente il rischio di una sospensione nel vuoto quando osservò che, per la scoperta dell’incalcolabile, il mondo moderno si dispone in una regione che sfugge alla rappresentazione. L’uomo avrebbe dovuto conoscere la verità e custodirla con la riflessione pura, mantenendosi in un territorio ambiguo sospeso sull’abisso che separa l’ente da l’essere. L’uomo appartiene all’essere, ma resta tuttavia straniero nell’ente. Heidegger  scriveva che malgrado tutto il suo valore, la  comprensione dell’essere risulta oscura, confusa, coperta, nascosta e proprio per questo essa deve venire chiarita, districata, sottratta al suo nascondimento. Il <<nuovo domandare>>che automaticamente scaturiva dalla riconosciuta problematicità dell’ente generava uno spazio aperto, ma si intendeva che esso stesso dovesse istituire un nuovo spazio che tutto include e attraversa. La forza di seduzione della contingenza storica avrebbe potuto incautamente tradurre questa nuova possibilità in evento preciso, ancora una volta ( paradossalmente ) calcolabile. Heidegger  lascia intendere che l’essere si ritrae proprio nell’attimo in cui si dis-copre nell’essente. Questo ritrarsi produce un errore fatale, che appartiene all’essenza della verità; sicché il divenire nella storia è per sua essenza il regno del travisamento. Il volto della verità non può allora che essere la morte, l’annientamento. L’infinito invoca la morte poiché non tollera la finzione di sé stesso. L’uomo in cerca dell’infinitezza, come scrive Zaccaria, incontra solo finzioni, e il contenuto di gratificante realtà che pur si continua a prendere abbiano i fatti, irresistibilmente tramutati in idoli dall’istinto comune o dal dogma sensista, opera infine l’inganno di una fede male orientata, e in definitiva un vero e proprio travisamento. Questo travisamento proviene allora da una semplice circostanza: la realtà del mondo continua a presentarsi, agli occhi di chi vuole trascenderla con le credenziali di un invincibile e allettante concretezza. Il sentiero della verità è dunque, come annotava Broch, infinitamente stretto. Esso separa due mondi ed espone chi lo percorre a rischio mortale di una caduta irreversibile. Su questo sentiero, per Broch, finiscono anche per incontrarsi i principi ultimi dell’arte poetica e del pensiero scientifico, specie dopo il crollo delle posizioni apodittiche del positivismo ottocentesco operato dalle scoperte delle antinomie. Secondo lui l’intuizione dell’infinità nella scienza e nella matematica avviene per via della preventiva conoscenza dell’infinito poiché senza la preventiva conoscenza di un’incognita nessun problema potrebbe venir posto. Questa precognizione ha sede, per Broch, in una sorta di inconscio gnoseologico cui si deve ogni esplicazione della sfera razionale. Da esso nasce l’intuito. Sempre per lui la matematica aveva il vantaggio di essere in grado di edificare una propria sfera empirica di nozioni e concetti, secondo una logica vicina a quella delle intuizioni, mediante costruzioni effettive immuni da contraddizioni. Esse divengono così un  apparato di unità ideali cui l’intera esperienza soggettiva può riferirsi. Resta tuttavia un ‘residuo di qualità’ di cui l’infinito impedisce una qualsiasi rappresentazione linguistica, questa è anche l’anima del simbolico. E’ in definitiva l’infinito a fare del simbolo un meccanismo non significativamente univoco, bensì semplicemente allusivo e polivalente, e perciò liberatorio. Waismann  applicò il principio della polisemia linguistica ai più celebri enigmi sull’infinito e vide l’effetto di un incontrollata polivalenza del segno. Egli notò che il linguaggio matematico offriva i più perfetti modelli di questa ambiguità. E’ allora evidente come il problema matematico dell’infinito si trovi automaticamente proiettato nella sfera morale. Questa proiezione è implicitamente suggerita da Broch e si trova prefigurata nell’opera di Musil. Con Neumann e Gòdel si considerò legittimo l’uso di notazioni matematiche non perfettamente filtrate da una critica rigorosa. Gòdell osservò come i paradossi della teoria degli insiemi non giustificavano un atteggiamento negativo nei riguardi di tale teoria.

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Non a caso i risultati sulla decibilità della teoria additiva dei numeri soffrono dell’inconveniente che, ogni algoritmo costituito per dedurre i teoremi di quella teoria si imbatte in proposizioni dimostrabili solo in un numero sproporzionato di passaggi; si tratta cioè di un caso di intrattabilità. Questo, tramuto in positivo l’indagine matematica. Usando la complessità come misura dell’informazione racchiusa in un sistema di assiomi, si verrebbe a disporre di un insieme APERTO di ipotesi di fronte alle quali il matematico si troverebbe a lavorare all’incirca come un fisico. La nozione di complessità verrebbe quindi a collocarsi quasi al culmine dell’edificio matematico, non solo definendone e misurandone i principi, ma anche ponendosi a giudice delle scelte delle ipotesi dei percorsi dimostrativi e illustrativi dei risultati.  Se si volesse azzardare un tentativo di accostamento di una scelta scientifica con una etica o metafisica si potrebbe adattare un’osservazione di Pjatigorskij sul pensiero buddhista: << Il massimo problema metafisico sulla filosofia buddhista è quello della complessità di tutto, o per essere più precisi, è che ogni fenomeno è complesso nel senso che qualsiasi cosa  può sussistere come fenomeno soltanto in quanto complessa>>. Rosnay, alle qualità dell’approccio sistematico alla comprensione delle strutture infinitamente compresse non esita ad associare a tali quantità la proposta di un’etica non priva di quei richiami alle sfere della sapienza che la scienza ufficiale preferisce ignorare. Tutto ciò ha le sue radici nella matematica e nel suo essersi anticipatamente conformata a quel modello di scienza dell’automa che svolge un ruolo insostituibile nel libro di Rosnay. La comprensione delle leggi del funzionamento di un sistema infinitamente complesso si svolge secondo criteri di percezione globale delle intenzioni delle varie componenti che assomigliano a quelli già delineati da Neumann nella sua prima descrizione degli automi, e della loro somiglianza agli organi viventi. Non si può non meditare sulle parole cui J. Von Neumann alluse all’insuperabile flessibilità della matematica. E senza le oscurabilità, i dubbi e le incertezze, mescolate all’esattezza, difficilmente si poterebbe concludere ciò: << Sento che uno dei più importanti contributi della matematica al nostro pensiero sta nel fatto che essa ha dimostrato un’enorme flessibilità nella formazione di concetti, un grado di flessibilità al quale è molto difficile arrivare con un metodo non matematico>>.

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